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Cultura e scienza / Intervista

Maurizio Fea. Sedotti dalle dipendenze

Le risposte emotive piacevoli, come i “like” di Facebook o una vincita alle slot, confermano le nostre identità, plasmando nuovi bisogni a partire dalle nostre abitudini

Tratto da Altreconomia 202 — Marzo 2018

“Il nostro cervello si è sviluppato -e con esso noi abbiamo sviluppato abilità e competenze- grazie anche alla capacità di riconoscere ciò che ci appare vantaggioso, ovvero ciò che comporta un ‘premio’. I like su Facebook, una vincita alle slot: quel che conta sono le risposte emotive piacevoli, la conferma della mia identità, ‘questo mi fa stare bene’. Le droghe sono il modello prototipale di questo meccanismo”. Maurizio Fea, psichiatra, è stato direttore del Dipartimento delle dipendenze della Asl di Pavia. Il suo ultimo saggio si intitola “Le abitudini da cui piace dipendere. Algoritmi, azzardo, mercato, web”.

Quando un’abitudine diventa dipendenza?
MF
Le abitudini sono strumenti fondamentali che l’evoluzione biologica ha messo a punto e sviluppato nei millenni, non solo negli esseri umani. Permettono agli individui di dare risposte veloci e spesso inconsapevoli di fronte a certe situazioni: una modalità efficiente, perché concede al cervello di concentrare l’attenzione su altre cose importanti, come approfondimenti ed emozioni. Le cose si complicano quando le strategie di mercato, attraverso i sistemi comunicativi, si dedicano alla  formazione e al mantenimento di abitudini attraverso le quali si creano dei veri e propri bisogni. Che prima proprio non c’erano: oggi ho bisogno di guardare il telefono appena sveglio perché  ho sviluppato progressivamente un’abitudine piacevole. Attenzione: l’abitudine induce un bisogno che diventa  reale e se non viene soddisfatto mi mette a disagio, mi fa stare in ansia: così si crea la dipendenza. Dal punto di vista etico, le implicazioni sono rilevanti, perché  mentre la soddisfazione di questi bisogni indotti dà benessere al singolo, contemporaneamente  produce un trasferimento di risorse e informazioni verso chi il bisogno l’ha creato, che così trae un profitto di cui io non ho alcun beneficio.

Una dinamica che nasce col mercato stesso.
MF La novità di questi ultimi 20 anni, grazie allo sviluppo della tecnologia, è che sono cambiate la scala e le dimensioni dei fenomeni. Siamo miliardi di individui connessi, immersi inconsapevolmente in una rete di abitudini. Un po’ come di un iceberg, vediamo solo la punta: gli epifenomeni, gli aspetti superficiali come la ludopatia o il cyberbullismo. Sotto però c’è la massa enorme di persone che ha adottato queste abitudini ed è in questa massa che si creano le condizioni per l’emergere degli estremi che ci appaiono e sono allarmanti. Ecco perché occorre non parlare solo di dipendenze. Nessuna azienda dirà mai ‘ora creo una dipendenza’. Semmai diranno che forniscono strumenti utili e vantaggiosi per creare automatismi e rendere la vita più semplice. Il che può certamente essere anche vero. Com’è  vero che il mercato, in maniera strategica e finalizzata, crea prodotti che formano abitudini con una capacità che va ben al di là del marketing e della comunicazione. Servono tuttavia dei requisiti affinché il meccanismo dell’abitudine funzioni: il comportamento deve essere piacevole, deve creare una aspettativa, deve produrre condivisione e accettazione. Così si alimenta la propria identità e  la sensazione di essere competenti. Ad esempio il semplice parlare di sé ad altri -come facciamo sui social- produce le stesse risposte neuroendocrine dell’assunzione di droghe, seppure in misura minore. È un effetto gratificante potentissimo: che c’è sempre stato, solo che 100 anni fa non potevi rivolgerti a una platea potenziale di migliaia di persone. Qui sta l’aspetto illusorio e rischioso della faccenda, l’autoinganno che può anche declinarsi facilmente nel patologico, ovvero nella costruzione di falsi sé.

Nel libro si spinge a dire che partecipiamo a un gigantesco esperimento universale, che mette in gioco il modo in cui evolveranno i nostri cervelli.
MF Un esperimento non coordinato e diretto da nessuno in particolare, ma al quale sono certamente in molti a essere interessati e ad attingere i risultati. Consiste nel capire come si comporteranno i nostri cervelli e quelli dei figli tra qualche anno, quando potrebbero manifestarsi anche sui nostri geni gli effetti dell’ambiente che ci propone in continuazione stimoli simili, ripetuti e omologanti. Uno scenario scientificamente affascinante, socialmente inquietante.

Norme adeguate possono ridurre i rischi?
MF Francamente lo dubito. Il potere di seduzione di questi meccanismi è difficilmente contrastabile  con la norma, ma serve  un atteggiamento critico e creativo. Più che impedirle, dovremmo facilitare l’uscita delle persone dalle ‘bolle’ che questi meccanismi creano. Servirebbe un pensiero critico, di rottura verso tali modelli che sia adottabile nelle piccole cose, nelle scelte quotidiane, anche quelle banali. D’altro lato, se oggi la battaglia del mercato economico è arrivare direttamente alle emozioni delle persone, creando il contesto emozionale più favorevole a quella determinata scelta, dobbiamo chiedere che il mercato adotti un atteggiamento più responsabile  e rispettoso. Basterebbe  utilizzare la tecnologia -la stessa che crea abitudini e bisogni- per proteggere i soggetti più vulnerabili (un limite temporale per le giocate delle slot, ad esempio). Riequilibrando il rapporto tra noi come soggetto del mercato e chi questo mercato controlla.

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