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Cultura e scienza / Intervista

Giorgio Manzi. Ultime notizie sull’evoluzione umana

Uno scheletro di Homo naledi, i cui resti sono stati rinvenuti nel sistema di caverne di Rising Star, in Sudafrica - © John Hawks/University of Wisconsin–Madison

La paleoantropologia è la scienza che si occupa delle nostre origini. “Una storia tutta da raccontare. La più bella che sia mai stata ricostruita”, spiega il professor Manzi

Tratto da Altreconomia 197 — Ottobre 2017

“La mia disciplina aiuta a capire chi siamo. E nel farlo può contribuire a trovare in noi stessi le risorse per gestire le nostre vite ora, e in futuro. Studiamo tutto quello che ci è stato consegnato dalla storia della vita sulla Terra, dalle vicende di 4,5 miliardi di anni di esistenza del nostro pianeta quelle di un’umanità complessa e numerosa. Un’eredità imponente”.

Giorgio Manzi è professore ordinario di Antropologia alla Sapienza di Roma, dove insegna Paleoantropologia, ecologia umana e storia naturale dei primati, e dove è anche direttore del Museo di Antropologia e del Polo museale Sapienza. La sua “disciplina” è lo studio dell’evoluzione umana dai primi “bipedi” di milioni di anni fa alla comparsa di Homo sapiens, circa 200mila anni or sono.

Una disciplina che è portata avanti da non molti scienziati al mondo.
GM
Se guardiamo a chi si occupa attivamente e a un livello riconosciuto in ambito internazionale di paleoantropologia stiamo in effetti parlando di poche centinaia di persone al mondo. Va detto però che la mia attività è solo una componente di un quadro di ricerca più ampio, che va dalla geologia all’indagine molecolare. Siamo pochi ma maneggiamo una materia importante, forse più importante di quanto possa sembrare a prima vista. Perché si tratta di comprendere la nostra natura di essere viventi attraverso il passato innanzitutto, ma anche nel confronto coi nostri parenti più prossimi fra le creature viventi, gli altri primati. Mentre parliamo dovremmo immaginare il brulicare di 7 miliardi e mezzo (ormai quasi) di esseri umani: una visione bellissima ma al tempo stesso impressionante, una condizione difficile da affrontare. Però abbiamo le risorse per fronteggiarla, e sono nella nostra testa, nel nostro cervello, frutto di un percorso evolutivo che, sia pur legato a contingenze, nasconde le risposte di cui abbiamo bisogno. A patto che si faccia prevalere la razionalità all’istinto. Se infatti è vero che abbiamo una tendenza distruttiva e deteriore, è altrettanto opportuno ricordare le fortissime forme di solidarietà e aggregazione tipiche della nostra specie. È semmai importante sapere quando si attivano le une o le altre. La paleoantropologia fornisce uno degli elementi chiave per questo ragionamento. Basterebbe dire che siamo tutti figli della stessa popolazione africana di migranti, che erano i primi Homo sapiens. Questo ci spingerebbe di più verso l’aggregazione e non verso il conflitto, che di solito nasce quando vedi nell’altro un “diverso”, un avversario, un nemico.

Uno dei suoi impegni è la divulgazione.
GM
Il lavoro dell’antropologo ha un senso anche in questo e, forse direi, proprio in questo. Se la nostra ricerca dà informazioni su noi stessi, il nostro passato, la nostra natura, allora deve essere condivisa con tutti. Le conoscenze dell’opinione pubblica su questi argomenti sono molto modeste, e spesso quello che si sa è sbagliato.

“Ultime notizie sull’evoluzione umana”, 2017, il libro che il professor Giorgio Manzi (anche editorialista del mensile Le Scienze) ha scritto per la casa editrice “il Mulino” (248 pp., 16 euro) - https://www.mulino.it/isbn/9788815272775
“Ultime notizie sull’evoluzione umana”, 2017, il libro che il professor Giorgio Manzi (anche editorialista del mensile Le Scienze) ha scritto per la casa editrice
“il Mulino” (248 pp., 16 euro) – https://www.mulino.it/isbn/9788815272775

Come lavora un paleoantropologo?
GM
Come in altre discipline scientifiche si parte da modelli, che sono il risultato dell’interpretazione di ciò che si sa. Si producono ipotesi che vanno verificate con un approccio sperimentale: si inizia dal terreno, con gli scavi e i ritrovamenti di fossili, poi si passa in laboratorio e si lavora su morfologia, manufatti, DNA, etc. Non necessariamente si lavora su qualcosa di appena scoperto. Anzi, se fossimo di più -e in Italia siamo davvero pochi- potremmo sfruttare siti di scavi potenzialmente molto fecondi di reperti, come quello di Ceprano, dove nel 1994 è stato rinvenuto uno dei più importanti fossili, un cranio frammentario. Altrove finanziamenti e attenzione mediatica hanno portato a risultati straordinari. Ad esempio ad Atapuerca, in Spagna, non a caso i direttori dei lavori sono coinvolti spesso in dibattiti pubblici che vanno al di là della scienza, ma nei quali possono portare il punto di vista di chi studia l’essere umano dalla sua comparsa sulla Terra.

Siamo ancora legati all’idea di un’evoluzione lineare, alla classica carrellata che parte con una scimmia e finisce con un uomo.
GM
Sono tanti i miti da sfatare, anche se immagini come questa sono ancora presenti nei musei, nei libri e sui giornali. Ad esempio nessuno sostiene più la tesi dell’anello mancante, ovvero di quell’essere metà uomo e metà scimmia di matrice ottocentesca, che spiegherebbe la nostra evoluzione. Perché di anelli mancanti semmai ce ne sono tanti. Poi, non esiste la “scimmia”, semmai “le scimmie”: ce ne sono 400 specie al mondo, e una siamo noi. Quindi l’uomo non discende dalla scimmia. L’uomo è una scimmia. Un po’ tutte -noi compresi- discendiamo dallo stesso antenato. Sei milioni di anni fa ci fu una cruciale separazione tra quelle che oggi sono gli scimpanzé da una parte, e il “cespuglio” di esseri dove siamo noi. A quel bivio sono seguiti percorsi molto complessi, non lineari. Spesso uso la metafora del palo della luce: abbiamo pensato a lungo che l’evoluzione sia un susseguirsi di specie, di cui noi siamo la più luminosa, sopra tutte le altre. Uno sviluppo “sequenziale” che facilmente scaturisce nell’errore di far coincidere evoluzione con progresso, se non addirittura nel creazionismo o in una visione finalistica. Ma non è così. L’immagine più corretta è quella dell’albero frondoso: un tronco, ramificazioni, e poi una complessità di sviluppi. Noi siamo in quelle fronde.

A intervalli più o meno regolari avviene una scoperta che sembra “riscrivere” le teorie.
GM Non riscrivere, semmai ampliare. Un nuovo elemento va inserito all’interno di un modello pregresso, che ne viene complicato. Si pensi alla scoperta, due anni fa di Homo naledi. È davvero sorprendente: una specie che a giudicare dalla morfologia sarebbe sembrata antica di 1,5 milioni di anni fa e che invece è sopravvissuta fino a 300mila anni fa. Forse non abbastanza da “incontrare” i primi Homo sapiens, che però sappiamo per certo aver convissuto con altre specie, come i Neanderthal in Europa, Homo heidelbergensis, i misteriosi “denisoviani” in Asia continentale, Homo erectus in Indonesia e i piccoli “hobbit” dell’isola di Flores, nell’arcipelago della Sonda. 100mila anni fa c’era tutto questo: tutti figli della prima grande diffusione del genere Homo avvenuta a partire dall’Africa due milioni di anni fa.

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