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Economia / Opinioni

Lotta all’evasione fiscale. La priorità dimenticata

Oltre due terzi di quanto non è versato al fisco è attribuibile a “fantasmi”, a soggetti del tutto sconosciuti all’erario, in pratica evasori totali. Ma nessuno li stana. Eppure questo “ammanco” stimato in oltre 100 miliardi di euro potrebbe coprire l’intera spesa sanitaria annuale. L’analisi di Alessandro Volpi

È sempre più evidente che una delle pochissime strade percorribili per reperire risorse pubbliche è costituita dalla lotta all’evasione fiscale. Si tratta di una scelta obbligata ma estremamente complessa come dimostra in primo luogo la sostanziale assenza di stime certe in merito. Non è chiaro infatti a quanto ammonti l’evasione complessiva con differenze di valutazione che risultano davvero enormi. Si passa da 250-270 miliardi di euro, pari a circa il 18% del Pil del nostro Paese, sulla base dei dati Eurispes per il 2016, ai 180 miliardi ipotizzati da alcuni studi recenti, ai 115 stimati dall’Istat, fino ai 101 miliardi, sempre per il 2015, contenuti nel Def ministeriale. In estrema sintesi, dunque, non esiste alcuna quantificazione condivisa di questa voce mancante dai conti pubblici che, da sola, potrebbe coprire l’intera spesa sanitaria annuale. Forse, non esiste neppure una reale volontà di raggiungere un simile risultato. Come è stato suggerito, invece, riuscire ad avere una valutazione quanto più oggettiva possibile dell’evasione e individuare il suo abbattimento, magari definito nell’impegno a scendere sotto i 100 miliardi annui, come uno degli obiettivi di finanza pubblica, al pari del rapporto deficit-Pil, potrebbe garantire uno stimolo forte alla ripresa economica.

Oltre all’assenza di stime certe, il tema dell’evasione presenta altri aspetti rilevanti. In primo luogo risulta fondamentale comprendere quanti sono gli evasori e quali parti della società italiana sono coinvolte in un simile fenomeno. Per rispondere a tale domanda occorre sottolineare come una porzione significativa dell’evasione sia rappresentata dall’economia criminale vera e propria che sottrae al fisco secondo le varie stime dai 75 ai 95 miliardi l’anno; è palmare quindi il nesso tra minori entrate dello Stato e criminalità organizzata, anche se spesso si tende a trascurare questo legame. Un altro dato che è indispensabile tenere presente per cogliere i caratteri di fondo del fenomeno evasione è costituito dal fatto che oltre i due terzi dell’ammontare complessivo di quanto non è versato al fisco è attribuibile a “fantasmi”, a soggetti cioè del tutto sconosciuti al fisco, in pratica evasori totali. Esiste, in altre parole, una massa enorme di non contribuenti -ogni anno ne vengono scoperti circa 8.000 dalla Guardia di Finanza- che non solo non versano ma non sono neppure noti ad alcuna anagrafe tributaria. Questo dato è davvero decisivo per smontare le tesi di quanti, purtroppo molto numerosi, sostengono che chi non paga le tasse, lo fa perché sono troppo alte; di fronte ad una platea così estesa di evasori totali, è evidente che chi non paga le tasse sceglie una simile soluzione perché non le vuole pagare e non le pagherebbe neppure se fossero più basse. Ci sono poi gli evasori “parziali” e quelli che hanno un contenzioso in essere.

Nel 2016 erano ben 21 milioni gli italiani residenti che avevano una pendenza aperta con Equitalia; un numero impressionante che, però, per il 54% dei casi ha dei contenziosi per cifre inferiori ai mille euro e che spesso non partorisce un gettito reale per lo Stato, se non in percentuale molto ridotta: si stima che per varie ragioni solo il 3,5% dell’intero monte crediti di Equitalia verrà realmente recuperato. Alle entrate pubbliche manca anche una parte del gettito delle “grandi compagnie”; nel 2015 una su tre ha chiuso il proprio bilancio in perdita e, secondo molte analisi, una percentuale alta di esse sposta i capitali verso società off-shore con un minor gettito per l’erario stimabile, ogni anno, intorno ai 50 miliardi di euro. Per completare questo quadro inevitabilmente incompleto si possono aggiungere due altri elementi. Il primo è costituto dalla propensione, assai diffusa, ad evadere l’Irpef da lavoro autonomo che, ancora secondo stime recenti, sfiora il 60%. Il secondo ha a che fare con la struttura generale del panorama dei contribuenti italiani; su poco più di 40 milioni di contribuenti solo lo 0,1% dichiara più di 300 mila euro, il 63% si colloca sotto i 26 mila euro e il 27%, per effetto di deduzioni e detrazioni, non paga nulla. Si tratta dunque di una base contributiva molto stretta e che risponde davvero poco alla distribuzione reale della ricchezza nel Paese tanto che il rapporto fra ricchezza e reddito dichiarato risulta in Italia di 1 a 8, rappresentando un’evidente anomalia nel quadro internazionale. Sulla base di questi numeri è chiaro che la lotta all’evasione costituisce la priorità delle priorità per i conti pubblici ma il suo buon esito non può prescindere, data la diffusione del fenomeno, da un vero e proprio cambiamento culturale in grado di restituire al ruolo del contribuente uno dei caratteri fondativi dell’idea stessa di cittadinanza.

Università di Pisa

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