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Diritti / Attualità

Gli alleati della Fortezza Europa per fermare i migranti

© EU/ECHO/Caroline Gluck

Per bloccare i flussi di richiedenti asilo e rifugiati, l’Unione europea non ha esitato a stringere accordi con dittature e Stati non democratici: dalla Turchia al Sudan, dall’Eritrea alla Libia. L’analisi di “Expanding the fortress”, l’ultimo report del Transnational Institute.

Pur di controllare i flussi migratori, tenendo migranti e richiedenti asilo il più lontano possibile dai propri confini esterni, l’Unione europea e i singoli Stati membri non esitano a stringere accordi con Paesi in cui si registrano violazioni dei diritti umani o con indicatori di sviluppo carenti . È quanto emerge dal report “Expanding the Fortress” curato dal Transnational Institute (TNI) e da “Stop Wapenhandel” (campagna olandese contro il commercio di armi) che analizza i principali protagonisti delle politiche di esternalizzazione delle frontiere Ue.

Sono 35 i Paesi al centro dell’analisi di TNI. Si va da Paesi europei come Ucraina e Moldavia a quelli africani (tra cui Eritrea, Sudan, Etiopia, Gambia, Nigeria, Sud Sudan), del Medio Oriente (Libano, Giordania, Iraq e Turchia), fino ad arrivare in Asia centrale e orientale (Afghanistan, Bangladesh e Pakistan). Paesi che vengono considerati prioritari nell’ambito del quadro di partenariato, sono ammissibili ai finanziamenti del Fondo Fiduciario di emergenza dell’UE per l’Africa (EU Trust Fund) o sono selezionati in base ad altre forme di cooperazione con l’Unione europea o i suoi stati membri.  

Paesi chiave per fermare, arginare o limitare i flussi di migranti e richiedenti asilo diretti verso l’Europa occidentale. Ma che, come evidenzia il rapporto sono tutti Paesi che si collocano agli ultimi posti nelle classifiche internazionali relative agli indici di sviluppo umano, al rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione.  Diciassette di questi Paesi hanno un governo autoritario e solo quattro possono essere considerati democratici (anche se con dei difetti); sono 18 quelli che rientrano nella categoria “basso sviluppo umano”, 17 quelli che vengono classificati come “non liberi”. Infine, verso otto di questi Paesi (Bielorussia, Egitto, Eritrea, Libia, Somalia, Sudan e Sud Sudan) l’Ue ha vietato l’export di armi.

“Il processo decisionale e l’attuazione dell’esternazlizzazione delle frontiere a livello dell’Ue sono stati caratterizzati da una velocità insolita ed è stato aggirato il controllo democratico da parte del Parlamento”, denuncia TNI.  Gli impatti di questa politica di esternalizzazione hanno conseguenze -dirette e indirette- a più livelli. iIl rafforzamento delle frontiere e la loro militarizzazione hanno portato a un aumento del numero dei decessi tra i rifugiati, costretti a intraprendere viaggi sempre più pericolosi. Lungo la rotta del Mediterraneo centrale, ad esempio, il rapporto è passato da un 1 morto su 267 migranti nel 2015 a 1 su 57 nel 2017. Inoltre “si stima che almeno il doppio del numero di rifugiati che muoiono nel Mediterraneo perdano la vita sulla rotta nel deserto” anche se non ci sono dati certi che possano validare questa stima.

I principali partner europei nel controllo dei flussi migratori con i relativi indici di sviluppo umano @Tni

Inoltre queste politiche aumentano la vulnerabilità di profughi e richiedenti asilo, che spesso si trovano in una condizione di particolare fragilità per il semplice fatto di non avere documenti in regola e sono particolarmente esposti al rischio di subire detenzioni arbitrarie, sfruttamento lavorativo e sessuale o deportazioni. “Violenze e depressioni spingono sempre più i migranti a restare nell’ombra, affidandosi a trafficanti e passeurs, rafforzando così le reti criminali”, si legge nel report.

Infine, le conseguenze di queste politiche possono impattare anche su quei Paesi africani e su quelle persone che non hanno alcuna intenzione di raggiungere l’Europa. L’imposizione di controlli alla frontiera finiscono, di fatto, con l’ostacolare anche le migrazioni stagionali per motivi lavorativi tra un Paese e l’altro, le migrazioni interne e il commercio transfrontaliero.

“Collaborando con regimi autoritari e che violano i diritti umani, l’Europa legittima questi governi e spesso rafforza le loro forze di sicurezza interne, attraverso la formazione e la fornitura di attrezzature. Aumentando così la loro capacità di repressione interna”, denuncia ancora TNI. Per Geert Laporte, membro dell’European Center for Development Policy Management, il coinvolgimento di regimi autoritari come Etiopia, Eritrea e Sudan nel Trust Fund è un rischio: “I loro leader criminali vedono questa come l’occasione della vita per costruirsi una legittimità internazionale attraverso la loro volontà di cooperare con l’Europa in materia di migrazione -spiega nel rapporto-. In questo modo stiamo aiutando questi regimi, che opprimono la loro stessa popolazione, a sopravvivere”.

Il caso più lampante è, probabilmente, quello del Sudan, coinvolto già nel 2014 nel “Processo di Khartoum”, iniziativa europea di cooperazione con i Paesi del Corno d’Africa per arginare i flussi migratori. Il Sudan, infatti, è al tempo stesso Paese d’origine per migliaia di rifugiati e snodo di transito per chi fugge dall’Eritrea e dal Sud Sudan, che vogliono raggiungere la Libia o l’Egitto per tentare la traversata del Mediterraneo.

Per fermare questi flussi l’Europa non ha esitato a stringere accordi con  presidente-dittatore Omar al Bashir è accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio per la repressione operata nella regione del Darfur.  Nell’aprile 2016, il commissario europeo per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo, Neven Mimica, ha discusso con il governo sudanese il “Better Migration Management programme” finanziato con 40 milioni di euro dal Trust Fund per l’Africa. Risorse che sono state investite per fornire addestramento, assistenza tecnica e fornitura di nuovi equipaggiamento alla polizia di frontiera.

“L’Ue e il Sudan hanno un’opportunità unica per far progredire le loro relazioni, talvolta complesse. Il Sudan è ora in prima linea nella lotta contro l’immigrazione irregolare, la tratta di esseri umani e il contrabbando”, aveva commentato Nimica. Preoccupa il fatto che il controllo delle frontiere sudanesi sia affidato al Rapid support forces (RSF), formato in larga parte dagli ex Janjaweed, le milizie a cavallo impiegate in Darfur. “La Commissione europea nega che i finanziamenti o le attrezzature siano finiti nelle mani dell’RFS -si legge nel report di TNI-. Ma anche prima dell’avvio del progetto, la Commissione aveva rilevato che uno dei rischi principali era dato dal dirottamento di attrezzature fornite per la repressione degli oppositori interni. Al tempo stesso, il governo Sudanese era stato chiaro sulle sue intenzioni di usare equipaggiamenti e tecnologia forniti o pagati dall’Europa anche per scopi interni”.

Difficile avere una stima precisa di quanto è stato speso in questi anni per finanziare le politiche di esternalizzazione delle frontiere europee. Secondo le stime del rapporto, solo nel biennio 2014-2016 sarebbero stati spesi almeno 15,3 miliardi di euro nel tentativo di bloccare i flussi di migranti e richiedenti asilo. La crescita delle spese per la sicurezza delle frontiere ha avvantaggiato un’ampia gamma di società private, in particolare produttori di armi. Come già denunciato dal Transnational Institute nel report “Border Wars” grandi multinazionali europee tra cui Airbus, Thales, Leonardo e Safran, sono le aziende che hanno maggiormente beneficiato dalla militarizzazione delle frontiere europee. I governi di Berlino e Roma finanziano le proprie imprese di armi (rispettivamente Hensoldt, Airbus, Rheinmetall per la Germania; Leonardo e Intermarine in Italia) per sostenere il lavoro di sicurezza alle frontiere di alcuni Paesi tra cui Egitto, Tunisia e Libia.

Ultimo, ma non meno importante, l’investimento nel settore biometrico: l’Unione europa ha spinto molti Paesi terzi a implementare politiche di registrazione della propria popolazione, compresi i rifugiati, con la raccolta di impronte digitali e altri dati biometrici necessari a identificare (ed eventualmente deportare) velocemente queste persone nel caso in cui riuscissero ad arrivare in Europa In questo settore sono attive realtà come la francese Thales e Gemalto, oltre ad attori come la società semi-pubblica francese Civipol o la joint venture tedesca Veridos.

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