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Economia / Opinioni

Mentre l’Europa cresce, l’Italia arranca

L’Eurozona è riuscita a recuperare la ricchezza distrutta dopo la crisi del 2007-08. Ma non il nostro Paese, dove con il Pil è cresciuto anche il debito. L’analisi di Alessandro Volpi

È ormai evidente che l’Europa ha ricominciato a crescere, registrando nel 2017 un incremento del Pil pari al 2,5%. Si tratta della conferma che l’esistenza dell’euro, le politiche della Bce e, più in generale, il sistema che lega vari Paesi del Vecchio Continente costituiscono strumenti molto efficaci per favorire la ripresa economica. Tale rilancio deriva dall’aumento del reddito di alcune realtà nazionali: la Germania cresce da sette anni dell’1,8% all’anno, la Spagna negli ultimi quattro anni ha conosciuto una lievitazione del Pil del 2,8 annuo, ma anche la Francia ha cumulato incrementi annui dell’1,1% dal 2008.

In altre parole, praticamente tutta l’Eurozona è riuscita a recuperare la ricchezza distrutta dopo la crisi del 2007-08. Ciò che colpisce di questi numeri importanti è la sostanziale indipendenza degli andamenti economici dei vari Paesi dal quadro politico interno e persino da alcune caratteristiche degli scenari macroeconomici. Non sembrano incidere infatti né le instabilità, spesso molto accentuate, delle maggioranze parlamentari dei diversi Paesi (in qualche caso sono rimasti senza governo per mesi), né la pronunciata tendenza di varie economie nazionali ad accumulare consistenti surplus commerciali, tali da generare squilibri nella bilancia complessiva del Vecchio Continente.

Il “sistema Europa”, oggetto di continue contumelie provenienti dalle parti più disparate e distanti ideologicamente, appare quindi più forte della politica e delle tensioni economiche interne all’area euro. Le sole eccezioni rispetto a questo panorama sono rappresentate da Cipro, dalla Grecia, dalla Finlandia, che però nel 2017 è cresciuta di quasi il 4%, e dall’Italia.

Nel caso italiano, nonostante un incremento del Pil che nell’ultimo anno è stato dell’1,5% e pertanto ha raggiunto il livello più alto dal 2008, continua ad essere presente una produzione di ricchezza inferiore a quanto avveniva nella fase pre-crisi: nel 2007 infatti il Pil era pari a 1.678 miliardi di euro e nel 2017 si è fermato poco sotto i 1.600 miliardi. Mentre, per fare un confronto, la Spagna è passata da un Pil di 1.121 miliardi nel 2007 ad uno di 1.140 nel 2017. L’Italia appartiene quindi al gruppo dei Paesi che non riescono purtroppo a beneficiare in pieno dell’onda della ripresa europea; le ragioni di una simile condizione sono molteplici e alcune di esse hanno motivazioni di lunghissimo periodo, ma due paiono pesare forse più delle altre.

La prima è costituita dai vincoli che proprio l’Europa ha posto alle realtà con il maggior debito pubblico. In tale ottica il nostro Paese ha scontato, a partire dal 2011 i pesanti effetti derivanti dalla qualità di osservato speciale che lo ha obbligato a manovre gravose e al sostanziale blocco degli investimenti pubblici. Almeno fino all’avvio della fase introdotta da Mario Draghi con la liquidità facile ad opera della Bce e alla concessione, da parte degli organismi europei, di una flessibilità nei confronti dei vincoli per oltre 30 miliardi di euro. Essere un Paese indebitato ha messo l’Italia in una condizione assai diversa da altre realtà continentali e i vincoli europei che ne sono derivati hanno influito molto di più della capacità dell’indebitamento pubblico di creare ricchezza. L’impressione, che emerge dagli andamenti economici recenti, è che la crescita del debito sia servita, in maniera forse un po’ impropria, a finanziare la tenuta di alcuni settori della spesa pubblica e una simile scelta, aggravata da un conto interessi superiore ai 70 miliardi di euro annui, ha contribuito a gelare la ripresa.

Una seconda ragione si lega al combinato disposto di regime fiscale, distribuzione della ricchezza e produttività. L’Italia è contraddistinta da un sistema fiscale poco progressivo, nonostante il principio costituzionale, ma difficilmente modificabile perché molto dipendente dal gettito Irpef, che è già decisamente concentrato su una fascia di redditi medio alti, e dall’Iva, il cui controllo e la cui modulazione sono assai complesse. Tale sistema, reso più spinoso da una selva di deduzioni e detrazioni, serve a finanziare una spesa pubblica complicata da gestire perché ancora troppo radicata sulle sue serie storiche. Tutto ciò non favorisce in alcun modo una efficace distribuzione della ricchezza e dunque finisce per limitare i consumi. A queste criticità si aggiunge una produttività stagnante che in parte dipende dalle difficoltà presenti negli investimenti pubblici e dalla freddezza di quelli privati, indeboliti dalla concorrenza dei titoli di Stato, soprattutto nel caso degli investitori istituzionali, e dalle troppe incertezze del sistema bancario, poco incline a trasformare la liquidità della Bce in impieghi verso il sistema produttivo.

Università di Pisa

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