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L’eroismo eretico di Danilo Dolci

Danilo Dolci

Ha reso il digiuno un’arma della lotta politica nonviolenta a servizio dei più deboli. Oggi la sua testimonianza contro il pensiero dell’inazione è ancora valida. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 234 — Febbraio 2021

Sicilia. Nell’estate del 1952 Danilo Dolci aveva visto morire di fame il figlioletto di Mimmo e Giustina Barretta, e allora egli si accorse di trovarsi -sono parole sue- in un mondo di condannati a morte. Sono le stesse parole che usa in questo momento Carlo Levi per descrivere i diseredati, gli oppressi e le masse del Sud i cui figli muoiono di fame, letteralmente. Allora apparve chiara l’idea che in questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio, e fu allora che Dolci disse “su questo stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io mi lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere”. Dolci inizia a digiunare. Siamo all’inizio di una vicenda che vedrà il digiuno come un’arma politica. Danilo verrà chiamato “il Gandhi italiano”. Bisogna riconoscere al piccolo Partito Radicale la forza di aver portato per molti anni la nonviolenza, questa nonviolenza del digiuno, agli onori della lotta politica, nel meglio -vorrei dire- della lotta politica italiana. Quando Dolci finisce a processo (a causa delle sue lotte non violente), accorre a difenderlo un padre costituente della Repubblica: l’avvocato Piero Calamandrei. Che racconta in aula la storia di un eretico medioevale: Michele Minorita. Un fraticello che nel 1389 viene condannato al rogo per aver predicato in una chiesa di Firenze. Che cosa aveva detto? Che Gesù non riconosceva la proprietà privata.

Il comunismo degli apostoli, il comunismo evangelico. Questo frà Michele Minorita viene condannato al rogo, e allora i fiorentini lo consigliano all’abiura: “Sciocco, pentiti, non voler morire, campa la vita”. Ma egli così risponde mentre passa, senza voltarsi: “Pentitevi voi dei peccati, pentitevi delle usure, pentitevi della vostra avidità”. E, dice Calamandrei, forse tra quel pubblico, tra quelli che lo incitavano a pentirsi e a non voler morire, c’era anche il commissario Di Giorgi, il poliziotto che aveva arrestato Danilo Dolci. Un fascista che era stato nella Repubblica sociale, a Salò, e che ora era lì di fronte a lui nel tribunale. Calamandrei mettendo insieme la storia e l’attualità dice: forse nella folla che voleva dire a quell’eretico del Trecento di convertirsi alla normalità, all’ortodossia, al dominio del denaro c’erano anche figure come il commissario, figure come i giudici. Oggi, quante ne conosciamo di figure che ci invitano all’unanimismo, a non mettersi di traverso, al pensiero ‘conforme’?

E alla fine, quando ormai è sul rogo, arriva un messo del Comune di Firenze che dà l’occasione a frà Michele di pentirsi, ma questi dice una cosa meravigliosa che non può dare testimonianza a questa verità, se non morendo. Uno degli armigeri di fronte a questa fermezza si domanda: “Ma dunque costui ha il diavolo addosso?”. Ma un altro gli risponde: “Forse addosso ci ha Cristo”.

Calamandrei vede in Danilo Dolci, in questo intellettuale che si compromette con i poveri, un grande eretico. E dice: “Noi queste cose le diciamo, le scriviamo da decenni, ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il contatto fraterno con la povera gente, siamo pronti a dire parole giuste, ma non sappiamo rinunciare al nostro pranzo. Per Danilo no: l’eroismo di Danilo è questo”.

Questa idea di Calamandrei è fortissima: Danilo Dolci è uno che invece di parlare soltanto, le cose le ha anche fatte; è uno che è andato a passare la vita fra i più poveri dei poveri. Perché la testimonianza si può dare morendo: ma anche vivendo. In direzione ostinata, e contraria.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra

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