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Eric Gobetti. E allora le foibe?

Lo storico Eric Gobetti © Eric Gobetti

Lo storico Gobetti riflette sulle foibe e il significato del Giorno del ricordo. In un saggio spiega perché non sono state una pulizia etnica e come avviare una riflessione pubblica

Tratto da Altreconomia 236 — Aprile 2021

E allora le foibe?” di Eric Gobetti è un libro (pubblicato da Laterza) che di provocatorio ha solo il titolo. In realtà tratta un tema politicamente incandescente facendo il punto sulla ricerca storica: mette in fila i fatti e le cifre e ragiona sul senso del Giorno del ricordo, istituito nel 2004 dallo Stato italiano (il 10 febbraio) al culmine di una campagna politico-culturale ricca di miti e di stereotipi. Gobetti scrive che le foibe non sono “la nostra Shoah”, che i morti non furono più di cinquemila, che non si trattò di una pulizia etnica e che la memoria pubblica è viziata da un eccesso di nazionalismo. Tanto è bastato per scatenare contro di lui un’ondata di insulti, minacce e accuse di “negazionismo”. In gioco ci sono interessi politici consolidati, ma anche le ragioni profonde della memoria pubblica e la funzione della ricerca storica.

Eric Gobetti, lei ridimensiona il fenomeno delle foibe. È questo il problema?
EG In passato si è parlato di numeri enormi di “infoibati”, ma gli storici ormai condividono una cifra di massima: quattro-cinquecento vittime per i fatti del 1943 all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre e tre-quattromila per i fatti del 1945. Sono numeri, questi ultimi, comparabili a quelli registrati in altre zone d’Italia nelle ultime fasi della guerra e inferiori a quelli di altre zone della Jugoslavia. Anche l’analisi delle vittime -per lo più collaborazionisti o combattenti a fianco dell’occupante nazista- conferma che non si trattò di pulizia etnica contro gli italiani ma di vendette, di rese dei conti. Come avvenuto altrove.

Quindi nessuna specificità legata al confine orientale?
EG C’era anche una specificità: nel 1945 l’esercito jugoslavo voleva annettere nuovi territori e insediare un nuovo regime politico comunista. Alcune uccisioni, una piccola percentuale sul totale, furono l’esito di questa strategia politica. Da storico non giudico la legittimità di questi propositi. Sul progetto annessionistico dico solo che aveva la stessa logica nazionalista che aveva portato, alla fine della Prima guerra mondiale, all’annessione di quegli stessi territori all’Italia. Erano zone abitate sia da italiani sia da sloveni e croati”.

“Oggi sulle foibe un accordo fra gli studiosi c’è ma si è affermata una retorica monopolizzata dall’estrema destra e la versione degli storici non è arrivata all’opinione pubblica”

Perché nel discorso pubblico corrente il fenomeno delle foibe è stato ingigantito? Lei cita un intervento televisivo di Paolo Mieli che parla di “decine, se non centinaia di migliaia di vittime”.
EG L’esempio di Mieli mostra quanto questo tema sia poco conosciuto e quanto sia raccontato in maniera superficiale. Il fatto è che il Giorno del ricordo è stato istituito senza che prima ci fosse un accordo fra gli studiosi e nell’opinione pubblica su quanto accaduto, all’opposto di quanto successo con il Giorno della memoria, che fu il coronamento di conoscenze consolidate in merito alla Shoah. Oggi, oltre 15 anni dopo, sulle foibe un accordo fra gli studiosi c’è, ma intanto si è affermata una retorica monopolizzata dall’estrema destra e la versione degli storici non è arrivata all’opinione pubblica. Il dibattito parlamentare sulla legge istitutiva fu molto eloquente. Da una parte c’era un’estrema destra che proponeva convinta il suo racconto ormai consolidato, dall’altra una sinistra moderata priva degli strumenti culturali per discutere a fondo: conosceva poco la materia. Alla fine la versione neofascista è diventata la narrazione ufficiale dello Stato italiano. Per questo oggi le istituzioni, ma anche i divulgatori televisivi, faticano a mettere in discussione i termini di quel racconto e così ripetono gli stereotipi, gli slogan. Quanto a Mieli, va detto che in trasmissione ha invitato anche storici seri che hanno potuto esporre i risultati della ricerca.

Lei dice che il Giorno del ricordo rischia di diventare “una commemorazione fascista”. Forse lo è già?
EG Diciamo che siamo al limite… Nei primi attacchi al mio libro, quando si conosceva solo il titolo, fra i vari messaggi di insulti ho trovato un commento interessante su una pagina Facebook di area neofascista. Uno che diceva: “Ragazzi, state calmi che la battaglia delle foibe l’abbiamo già vinta”. Il messaggio esprimeva la consapevolezza che l’interpretazione neofascista ha raggiunto il suo scopo. Io però ho ancora qualche speranza. In alcuni recenti webinar ho sentito dirigenti delle associazioni degli esuli accusarmi di negazionismo, ma anche usare toni e linguaggio diversi dal solito: hanno capito di non poter più usare certe espressioni né trascurare che cos’è stato il fascismo, coi suoi crimini, l’italianizzazione forzata, la guerra.
E magari non è un caso se quest’anno Sergio Mattarella il 10 febbraio ha evitato di parlare di pulizia etnica. Non ha parlato nemmeno di negazionismo, come aveva fatto nel 2020, accusando di fatto gli storici perché sono gli storici oggi a negare la versione ufficiale dei fatti, non altri.

L’antifascismo è in crisi?
EG Sì: siamo in mezzo a una crisi che dura da tempo. Per due ragioni. Primo, perché l’antifascismo è sotto attacco da parte di forze politiche corrispondenti a una fetta molto consistente dell’elettorato. Secondo, perché dall’altra parte non c’è più un partito con una forza parlamentare rilevante che difenda in modo esplicito e diretto i valori dell’antifascismo.
Non voglio dire che il Partito democratico non si riconosca in quei valori, ma che non ha interesse a difenderli pubblicamente. Forse perché sono valori svalutati e non sembrano utili per ottenere consenso. Io non sono convinto che sia una buona strategia, ma non sono un politico. L’attacco comunque è molto forte e dall’altra parte ci sono solo l’Anpi, alcune associazioni, tanti singoli cittadini, senza però una sponda politica.

“L’analisi delle vittime -per lo più collaborazionisti o combattenti al fianco dell’occupante nazista- conferma che non si trattò di pulizia etnica contro gli italiani ma di vendette, di rese dei conti”

Che peso può avere nel ridefinire la memoria pubblica l’incontro dell’estate scorsa fra Mattarella e il presidente sloveno Pahor alla foiba di Basovizza a Trieste?
EG In Italia abbiamo voluto considerare questo evento solo dal nostro punto di vista. Ma anche la Slovenia fa la sua politica. In quel Paese negli ultimi anni è molto rilevante la rappresentazione della Slovenia come vittima della Jugoslavia comunista. La visita di Pahor a Basovizza non significa: sì, noi siamo responsabili. Significa, piuttosto: sì, i partigiani comunisti hanno commesso gravi crimini da noi e anche da voi. È come se lo Stato italiano ad Auschwitz invece di dire “è vero, l’Italia ha contribuito a deportare gli ebrei”, affermasse: “La Germania ha ucciso tanti ebrei, anche ebrei italiani”. Intendiamoci: c’è del vero ma è anche un modo per sfuggire alle proprie responsabilità storiche. Poi, per carità, abbassare i toni, allentare le tensioni è sempre una buona cosa e quindi penso che l’incontro fra i presidenti sia stato comunque un bel gesto. Ma si poteva fare di più.

Che cosa per esempio?
EG L’elefante nel salotto è la questione dei crimini di guerra dell’Italia fascista. Silvio Berlusconi qualche anno fa in Libia riconobbe i crimini compiuti dal fascismo, sia pure per ragioni politiche contingenti. Con la Jugoslavia non è mai stato fatto niente del genere. Nel 2021 cadono gli 80 anni dall’invasione italiana, sarebbe l’occasione per agire. Sarebbe un gesto straordinario di riconciliazione.

1.500 sono le persone che hanno perso la vita nel campo di concentramento di Arbe

Quale potrebbe essere un luogo simbolo di quest’assunzione di responsabilità?
EG Non ho dubbi: il campo di concentramento di Arbe. È nell’attuale Croazia, le vittime furono in gran parte slovene e i responsabili ovviamente italiani. È quindi il luogo ideale per unificare la memoria di tre Paesi. E poi è simbolico perché è un campo di concentramento e aiuterebbe a superare il mito degli italiani brava gente. Quando intervengo nelle scuole e parlo dei campi di concentramento gestiti dalle forze armate italiane, campi in cui furono internate centomila persone e almeno cinquemila (compresi donne e bambini) ne morirono, i ragazzi sono scioccati perché i campi, nell’immaginario popolare, sono associati alla Germania nazista. Celebrare un evento di riconciliazione ad Arbe, dove persero la vita quasi 1.500 persone, sarebbe un gesto di grande importanza.

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