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Entra in vigore il decreto “Red II”: che cosa cambia per le comunità energetiche

© Jeroen van de Water, unsplash

Nate per dare una risposta innovativa e diversa al modo di produrre e consumare energia, mettendo i cittadini al centro della transizione, le comunità energetiche potranno installare impianti più grandi e abbracciare territori più vasti. Una trentina i progetti conformi alla nuova normativa già attivi sul territorio o in fase di partenza

La transizione verso la produzione di elettrica da fonti rinnovabili potrà contare, nei prossimi anni, sul contributo sempre più rilevante delle comunità energetiche. Esperienze che oggi -dopo circa un anno di sperimentazioni- coinvolgono numeri limitati di persone potranno aumentare di dimensioni, producendo quantità molto maggiori di energia elettrica connettendo molte più abitazioni, attività produttive, negozi ed edifici pubblici. Diventando così un attore importante sul mercato dell’energia nazionale: secondo le stime di RSE-Ricerca sul Sistema Energetico (la società di ricerca che fa capo al GSE-Gestore dei Servizi Energetici) e della Luiss Business School è possibile immaginare nei prossimi dieci anni l’installazione di nuovi impianti all’interno delle comunità energetiche per un totale di 7 GW.

La spinta arriva dal decreto legislativo “Red II” (d.lgs 8 novembre 2021, 199) entrato in vigore il 15 dicembre che dà piena attuazione alla direttiva 2018/2001 dell’Unione europea sulla “promozione e l’uso dell’energia da fonti rinnovabili” e che, tra le altre cose, disciplina il funzionamento delle comunità energetiche. Il nuovo decreto introduce importanti elementi di novità rispetto a quanto stabilito dalla legge 8/2020 che aveva recepito parzialmente e in modo anticipato la direttiva europea dando vita alle prime sperimentazioni delle “comunità dell’energia” nel nostro Paese.

“La prima importante novità della ‘Red II’ sta nella possibilità di realizzare impianti più grandi: in base alla precedente normativa la singola comunità energetica poteva installare un impianto dalla potenza massima di 200 kW, adesso sarà possibile arrivare fino a 1 MegaWatt. Questo significa realizzare impianti con investimenti e ricadute decisamente più significativi in ottica di comunità”, spiega Matteo Zulianello, ricercatore di RSE e tra i curatori di una recente pubblicazione curata da RSE in collaborazione con Luiss Business School che ha passato in rassegna le prime 58 comunità energetiche attive sul territorio nazionale. “La seconda novità -prosegue Zulianello- sta nel fatto che fino a oggi tutti i membri di una comunità energetica dovevano afferire a un’unica cabina secondaria che, anche in un piccolo Comune, insiste su un’area abbastanza ristretta. Permette, ad esempio, di collegare le abitazioni affacciate lungo una strada o al massimo un quartiere. Con il nuovo decreto si passa alla cabina primaria: anche questo elemento permette alle comunità di crescere, coinvolgendo un numero decisamente maggiore di persone. E in alcune aree rurali persino di comprendere più Comuni”.

In questi due anni diverse realtà -tra amministrazioni locali e realtà del privato sociale- hanno iniziato a sperimentare i possibili impatti delle comunità energetiche. “Queste iniziative, che possiamo definire prototipali data la dimensione degli impianti e il perimetro dell’intervento, hanno già fatto vedere come le comunità energetiche possano andare al di là del semplice interesse di autoconsumare l’energia prodotta nel territorio riducendo indirettamente la spesa energetica per il singolo: delineando per esempio interventi di contrasto alla povertà energetica, o politiche territoriali per promuovere il ripopolamento di alcune aree del Paese”, scrive Maurizio Delfanti, amministratore delegato di RSE nella prefazione della ricerca.

I soggetti presi in esame sono 58, divisi tra 23 imprese energetiche di comunità non conformi alla normativa attuale (perché avviate negli anni precedenti alle più recenti innovazioni legislative) otto community energy builders (ad esempio realtà cooperative come “ènostra” o industriali come “enel x”) e 27 comunità energetiche rinnovabili avviate in osservanza della legge 8/2020. Le comunità energetiche mappate sono distribuite in maniera abbastanza omogenea su tutto il territorio nazionale: dal Piemonte (dove è già attiva l’esperienza dell’Energy City Hall di Magliano Alpi, in provincia di Cuneo) alla Sardegna (con le comunità energetiche di Villanovaforru e Ussaramanna, sostenute nella progettazione da ènostra), dalla comunità energetica laziale di Ventotene (LT) a Biccari (FG) a quella di Napoli Est che proprio a metà dicembre è entrata in funzione. Passando poi per Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia e Sicilia. “Alcune realtà non sono ancora state formalmente riconosciute, ma hanno iniziato il processo di costruzione dell’impianto o di costituzione della comunità -spiega Zulianello-. Alcune erano interessate a sviluppare progetti un po’ più grandi rispetto a quelli possibili con la legge 8/2000 per questo, quando hanno iniziato a circolare le bozze del recepimento complessivo della ‘Red II’, hanno preferito aspettare. È molto probabile che vedremo un nuovo slancio nei prossimi 4-5 mesi”.

Se da un lato uno degli obiettivi principali della legge è ampliare la platea dei produttori di energia da fonti rinnovabili, la ricerca di RSE evidenzia come le comunità energetiche possano dare risposte a tutta una serie di esigenze e problematiche del territorio. Oltre che sull’aggettivo “energetiche”, infatti, Zulianello insiste molto sul concetto di “comunità”: “Nascono per dare una risposta innovativa e diversa al modo di produrre e consumare energia. Vuol dire mettere i cittadini al centro del progetto di transizione energetica, ma non solo. L’energia non va intesa solo come bene economico, ma come un tramite per abilitare le comunità locali a rispondere alle esigenze che vengono individuate sul territorio, ad esempio per promuovere lo sviluppo locale o contrastare la povertà energetica”.

Il lavoro svolto in questi anni ha permesso di individuare i punti di forza di questo modello e le criticità su cui sarà importante intervenire. Uno dei temi aperti riguarda il coinvolgimento degli enti locali, in particolare i Comuni con meno di 5mila abitanti che vengono identificati tra i principali promotori delle comunità energetiche: un target che verrà incoraggiato anche dagli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che ha previsto per le comunità energetiche 2,2 miliardi di euro di investimenti. I piccoli Comuni, però, proprio a causa delle ridotte dimensioni, della mancanza di competenze specifiche o in assenza di un’attività di sensibilizzazione mirata rischiano di essere esclusi. “C’è una tensione tra una politica bottom-up che mette in mano ai cittadini e alle pubbliche amministrazioni la possibilità di partecipare ai mercati dell’energia e una politica top down da parte del legislatore nazionale che deve rispettare obblighi precisi in termini di decarbonizzazione e penetrazione delle rinnovabili -spiega Zulianello-. Queste piccole realtà, se decidono di impegnarsi attivamente, devono essere messe nelle condizioni di poter lavorare grazie a una legislazione e una regolazione efficace, ma al tempo stesso è chiaro che lo Stato non ha da solo la possibilità di raggiungere tutti i territori. Per questo occorre la collaborazione di diversi soggetti: da quelli che abbiamo chiamato community energy builder alle Regioni, alle comunità montane fino all’Anci”. Informazione, formazione e servizi diffusi sui territori sono alcuni degli elementi fondamentali per permettere alle comunità energetiche di fare un salto in avanti.

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