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Diritti / Opinioni

Quelli che abbiamo lasciato indietro nell’emergenza Coronavirus

Isola di Lesbo © Medici Senza Frontiere

Dai porti dichiarati non sicuri per i naufraghi ai morti nelle carceri: le comunità più fragili sono state abbandonate. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 226 — Maggio 2020

Papa Francesco, nel pieno della pandemia, ha detto che nelle azioni e nelle prese di posizione di molti governanti non è stato difficile scorgere una deriva ideologica simile a quella del nazismo. Parole forti, fortissime, per definire quella sorta di darwinismo sociale che ha spinto numerosi uomini di potere (politico ed economico) a teorizzare la necessità di “sacrificare” una parte dei cittadini -i più anziani e più fragili- per consentire alla società nel suo insieme di pagare, nell’emergenza sanitaria, un prezzo minore in termini economici e di continuità del modello sociale esistente. È una posizione, questa, con una sua logica razionale e precise ricadute sociali. È stata respinta, a dire il vero, dalla maggior parte dei Paesi ma non rifiutata del tutto: si è più spesso arrivati a una mediazione fra l’obiettivo di tutelare le vite e garantire a tutti le migliori cure e l’esigenza di proteggere il sistema economico e i suoi equilibri consolidati.

Papa Francesco, con la franchezza dell’uomo di fede, ha indicato il lato oscuro di tale bilanciamento. È una valutazione che si può estendere ad altre scelte compiute durante la pandemia: la disinvolta “chiusura” dei porti alle imbarcazioni con naufraghi a bordo, l’abbandono di fatto dei campi profughi, la disattenzione per le conseguenze del virus nelle comunità più fragili, per esempio nei campi rom e nelle carceri. Sono tutte fattispecie -il darwinismo sociale, l’esclusione dallo sguardo di fette di umanità- che mettono a nudo l’architrave ideologico della società presente, mai così chiaro come in questa crisi pandemica globale. Il succo è che le forme di tutela e protezione -l’insieme dei diritti fondamentali- non sono disponibili per tutti e sono soggette a valutazioni variabili nel tempo. Lo stesso concetto di umanità, quindi l’ambito di applicazione della dottrina dei diritti umani, non è predefinito come potrebbe sembrare al di qua del confine che separa la specie umana dagli altri animali. La linea di separazione è in realtà variabile e tende a relegare nella cerchia dei non umani o sub-umani o meno-che-umani, insomma fra i non meritevoli di tutela, gruppi sociali ben definiti.

14 sono i detenuti morti in carcere a Rieti, Modena e Alessandria durante le rivolte scoppiate in tutta Italia contro le misure restrittive prese delle autorità penitenziarie durante l’emergenza Coronavirus

Non è una novità. I genocidi del passato, pensiamo alla shoah ma anche alla guerra civile in Ruanda, per non citare che due esempi, si sono avvalsi della metafora animale per agevolare lo sterminio di massa: è più facile eliminare un ratto o uno scarafaggio -come venivano definiti dalla propaganda gli ebrei sotto il nazismo e il popolo tutsi nel “Paese delle mille colline”- che un essere umano.

L’inattesa ma prevedibile (e prevista da alcuni inascoltati esperti) crisi pandemica ha minato certezze diffuse. È entrato in crisi anche l’antropocentrismo, cioè il presupposto logico delle grandi ideologie del nostro tempo.
L’aggressione agli ecosistemi, la distruzione degli habitat di vita animale selvatica, l’espansione degli allevamenti industriali sono la causa diretta dello “spillover”, il salto di specie compiuto dai vari virus all’origine delle ultime pandemie. Perciò l’ecologia radicale, la prassi animalista, il pensiero antispecista, finora considerati poco degni d’attenzione, appaiono improvvisamente calzanti e profetici in un mondo che non riconosce più se stesso. L’umanità è obbligata a pensarsi come parte di un sistema vitale complesso, rinunciando alla sua pretesa di dominio incontrollato. Abbiamo l’occasione, o forse l’obbligo, di ripensare tutto.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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