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Economia / Opinioni

Economia reale e bolla dei listini. Lo “spillo” della tassazione sulle rendite finanziarie

Joshua Hoehne on Unsplash

“Se il mare di liquidità immesso sui mercati finanziari rende gli impieghi in azioni e obbligazioni certamente più remunerativi, parrebbe quasi inevitabile prelevare da un tale boom le risorse per consentire la ripresa anche di quelle parti dell’economia reale che, non avendo accesso al credito e ai mercati finanziari, non riescono a godere dei benefici dell’azione della stessa Banca Centrale Europea”. L’analisi di Alessandro Volpi

Stiamo vivendo un vero e proprio paradosso, tanto evidente quanto apparente. Nel 2018 le aziende quotate al listino della Borsa di Milano hanno distribuito dividendi per circa 19 miliardi di euro e i numeri relativi al primo trimestre del 2019 confermano un simile, brillantissimo andamento. Mentre si assiste a tale boom finanziario, i dati dell’economia italiana appaiono invece decisamente stagnanti, con una crescita inesistente. Come è possibile questa distanza così marcata tra la dimensione finanziaria dell’economia e quella dell’economia “reale”? Per rispondere è indispensabile fare riferimento ad alcuni elementi che rappresentano il panorama produttivo del Paese da cui risulta che esistono oltre quattro milioni di imprese dove sono occupati quasi 17 milioni di lavoratori.

Si tratta quindi di un quadro dominato dalle piccole e piccolissime aziende, nel quale quelle con più di 250 dipendenti sono solo lo 0,1% del totale e assorbono il 20,6% della forza lavoro. Non esiste, di conseguenza, un legame tra le Borse e la stragrande maggioranza delle imprese italiane che, data la loro debole struttura in termini di occupati e di capitale, non sono nelle condizioni di avere accesso ai mercati finanziari popolati invece da pochi grandi gruppi, destinati, di fatto, ad essere i principali beneficiari delle politiche monetarie espansive della Banca Centrale Europea. In altre parole, il divario fra le società quotate in Borsa o presenti sui mercati finanziari e il resto dell’economia dipende, oltre che dalla loro taglia dimensionale decisamente maggiore e, spesso, dalla loro capacità di internazionalizzazione, dal fatto che tali società hanno potuto disporre della ingente liquidità fornita a banche e istituzioni finanziarie dall’istituto guidato da Mario Draghi. Non è certo un caso che dal 2012, dalla ormai celebre affermazione del presidente della Banca Centrale Europea, con cui dichiarava che la politica monetaria sarebbe stata espansiva “a qualunque costo”, la capitalizzazione delle Borse dei Paesi della zona euro è raddoppiata, arrivando a sfiorare i 6.800 miliardi di euro, con un forte apprezzamento del valore delle azioni e delle obbligazioni; solo per ricordare il caso italiano, le obbligazioni hanno visto salire il loro prezzo del 48% rispetto al 2012.

Alla luce di questi dati, il paradosso della duplice velocità dell’economia finanziaria che corre e dell’economia reale che è ferma risulta, come accennato in apertura, al contempo evidente e apparente. Tuttavia proprio questo paradosso suggerisce una duplice considerazione.

1) La già ricordata dipendenza delle fortune delle società quotate e dei mercati finanziari dall’intervento della Banca Centrale Europea è diventata pressoché totale, tanto è vero che qualsiasi ipotesi di restrizione della liquidità garantita dall’istituto presieduto da Draghi è sufficiente a mettere in fibrillazione i listini. Le attenzioni verso l’azione monetaria sono così marcate che persino l’emergere di qualche dato positivo delle economie “reali”, anche una minuscola ripresa del Pil, finisce per spaventare i mercati solerti nell’ interpretare le schiarite come un pericoloso stimolo nei confronti della Banca Centrale Europea a stringere il rubinetto della liquidità; se lievi miglioramenti degli indicatori economici riducono le erogazioni monetarie decise da Draghi senza che ad essi segua una vera ripresa, i mercati mostrano di considerarli addirittura un elemento negativo! Si tratta di un fenomeno in gran parte nuovo e che dimostra l’assoluta centralità ormai acquisita dalla Banca Centrale Europea -come del resto avviene anche per la Federal Reserve a stelle e strisce- nel determinare chi vince e chi perde nello scenario economico e nel rendere ancora più netta la già accennata differenza fra le imprese in grado di accedere al sistema del credito finanziato gratis dalla stessa Banca Centrale e quelle escluse.

2) Proprio questa centralità e la fortissima dipendenza delle sorti delle imprese dalla possibilità di avere credito originato dall’Europa dovrebbero spingere nella direzione di un inasprimento dell’imposizione fiscale sulle rendite finanziare, il cui successo discende appunto in larghissima parte dalla Banca Centrale Europea. Se il mare di liquidità immesso sui mercati finanziari rende gli impieghi in azioni e obbligazioni certamente più remunerativi, parrebbe quasi inevitabile prelevare da un tale boom le risorse per consentire la ripresa anche di quelle parti dell’economia reale che, non avendo accesso al credito e ai mercati finanziari, non riescono a godere dei benefici dell’azione della stessa Banca Centrale Europea. Solo aumentando il prelievo fiscale sulle rendite finanziarie, piuttosto che immaginare, come avvenuto troppo a lungo in passato, riduzioni per tentare un’inutile concorrenza ai paradisi fiscali, sarà possibile evitare che il paradosso delle due economie continui a perpetuarsi. Il fatto di aver portato l’imposizione dal 20 al 26%, nel 2014, forse non è più sufficiente in presenza di costanti bolle finanziarie al rialzo anche quando le condizioni del Paese mostrano segnali sempre più preoccupanti.

Università di Pisa

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