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Diritti / Opinioni

L’ecatombe dei migranti e il vocabolario che lascia interdetti

Osservando il Mediterraneo o i campi in Libia affiora la tentazione di parlare di lager e di politiche volte al “genocidio”. Parole che spaventano. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 199 — Dicembre 2017

“L’Europa è responsabile di un vero e proprio genocidio, perciò denuncio alla procura l’Unione europea e i singoli Stati per la sua gestione criminogena dei migranti”: l’uscita del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, a metà ottobre, suscitò più stupore e scetticismo che attenzione. Pareva un’iperbole, una pericolosa esagerazione, perché evocare certi concetti, suggerire accostamenti fra eventi storici distanti fra loro, implica il rischio della banalizzazione e -anche- del revisionismo. Osservando quel che avviene nel mar Mediterraneo, o nei campi di detenzione in Turchia e Libia, per non dire dei viaggi compiuti attraverso l’Africa dagli aspiranti all’emigrazione, affiora spesso la tentazione di parlare di lager e di politiche volte al genocidio, ma sono parole che fanno spavento e si esita a utilizzarle. Orlando ha rotto il tabù specificando di “parlare da giurista” e indicando anche una fattispecie concreta: “In base alla propria legislazione, l’Europa riconosce il diritto all’asilo dei siriani, ma poi non li mette in condizione di raggiungere l’Europa. Li costringe a vendersi a mercanti di morte. Questa è materia sufficiente perché si faccia un processo penale”.

Il termine genocidio fu coniato nel 1944, mentre l’attività dei campi di sterminio era a pieno regime, da Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco sfuggito alla Shoah. La definizione ufficiale, adottata nel 1946 dalle Nazioni Unite, fu il frutto di un compromesso politico fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale -si escluse ad esempio la discriminazione politica su richiesta dell’Unione sovietica- e col tempo i giuristi ne hanno ridefinito i confini, senza peraltro che vi sia tuttora un accordo pieno sui suoi contenuti e limiti. Si può davvero parlare di genocidio per la sorte dei migranti fermati alle soglie dell’Europa? Per gli annegati in mare, per le donne violentate durante il viaggio, per le persone recluse senza aver commesso reati e spesso torturate? Annamaria Rivera, antropologa e studiosa delle migrazioni, nel 2015, all’indomani dello scalpore suscitato dalla fotografia del piccolo Aylan riverso senza vita su una spiaggia turca, scrisse che “le istantanee più recenti a prova del trattamento dei profughi e della loro ecatombe inesorabile contengono segni evocanti la semiotica del genocidio”.

All’inizio di novembre, mentre le cronache riportavano le notizie di barconi affondati nel Mediterraneo, Roberto Saviano si è impegnato in una “call to action” rivolta ai giuristi di buona volontà: “Farli arrivare cadaveri in Europa o bloccarli nei lager libici non può essere la civile soluzione italiana ed europea al problema immigrazione. Gli illustri colpevoli che hanno stretto accordi con i torturatori vanno processati e giudicati ora. Dobbiamo far comprendere ai governi europei che nessuno può sacrificare vite umane per ragioni di propaganda elettorale e che nessuno può farlo rimanendo impunito”.

26: i cadaveri delle ragazze, di età compresa fra i 14 e i 18 anni, arrivati a Salerno il 5 novembre a bordo di una nave spagnola che aveva raccolto da un barcone anche 375 altre persone

Nella varietà delle definizioni, il genocidio riguarda il modo di trattare persone finite nella categoria delle “vite superflue”, o “vite di scarto” come le ha chiamate Zygmunt Bauman. È vero che la giustizia internazionale è stata ed è tuttora peggio che imperfetta, con ampi spazi lasciati all’impunità, ma non per questo il dibattito sul “genocidio dei migranti” merita d’essere chiuso prima ancora di cominciare. Discutere della Fortezza Europa e dei mandanti politici di torture e massacri per annegamento, ci aiuterebbe a mettere a fuoco qual è la vera emergenza migrazioni: un’emergenza per deficit di democrazia, di umanità, di giustizia.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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