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Finanza / Opinioni

Il “dumping fiscale” irlandese mostra le crepe dell’UE

Proteste contro il "bailout" della Anglo Irish Bank, in seguito alla crisi del 2009

Nel 2010 l’Irlanda ha ricevuto 67,5 miliardi di euro di aiuti dall’Europa; oggi, però, il governo del Paese pare intenzionato a rifiutare di incassare la multa da 13,5 miliardi comminata ad Apple, per misure che la Commissione europea ha considerato come illegittimi “Aiuto di Stato”. Ecco perché politiche di tassazione delle corporation non uniformi rappresentano uno dei limiti maggiori dell’Unione

La vicenda della colossale “multa” inflitta dall’Antitrust europeo alla Apple costituisce un fatto di assoluto rilievo. Per la sua entità, pari a circa 13,5 miliardi di euro, è di gran lunga la richiesta di sanzione più alta mai avanzata dalla Commissione europea, che in passato si era “limitata” a chiedere 1,4 miliardi di euro alla società francese Edf. 
Ma al di là della cifra astronomica rivestono un grande peso altri fattori. In primo luogo, colpisce l’atteggiamento del Paese beneficiario della multa, l’Irlanda, che, in maniera almeno apparentemente incredibile, si è dichiarata non disponibile ad incassare un simile straordinario assegno e anzi si è detta pronta ad impugnare la decisione dell’Antitrust davanti alla Corte europea di Giustizia.

Ma come è possibile che uno Stato, a cui l’Europa stessa ha garantito un salvataggio da 67,5 miliardi di euro nel 2010, ancora in buona misura da restituire, non voglia accettare un tale manna dal cielo? Sarebbe, è stato fatto notare, come se l’Italia rifiutasse un versamento di imposte eluse per poco meno di 101 miliardi, una somma sufficiente a coprire le esigenze di sei-sette anni di Leggi di Stabilità. Una prima spiegazione potrebbe derivare dall’errore nel calcolo fatto dall’autorità europea perché, sostiene Apple, in realtà le tasse pagate in Irlanda solo nel 2014 sarebbero state pari a 400 milioni di dollari, quindi molto di più dell’aliquota irrisoria dello 0,005% stimata appunto dall’Antitrust. Questa spiegazione appare tuttavia debole rispetto al computo generale del periodo contestato, che abbraccia l’arco temporale dal 2003 al 2014, allorché lo scostamento rispetto all’aliquota “legittima” del 12,5% pare essere stato assai marcato.

La motivazione della scelta irlandese sembra essere invece un’altra ed è legata al vero nodo della questione che la multa fa emergere. L’economia di quel Paese ha individuato uno dei cardini del suo sviluppo nel “dumping” fiscale, in una evidente tendenza a far pagare alle multinazionali tasse e imposte in misura decisamente inferiore a quello che avviene in altre realtà europee; in tale ottica, applicare la pur succosa multa rischierebbe di far perdere all’Irlanda uno dei segni della sua “identità”. Se così stanno le cose, però, una simile scelta è assai grave e certifica una delle più palmari debolezze del Vecchio Continente. Non può essere ammissibile infatti che un Paese, destinatario di aiuti pubblici, pagati dai cittadini di altri Paesi europei, abbia messo in difficoltà quegli stessi “benefattori” con aliquote destinate ad attrarre possibili investimenti internazionali che, a parità di tassazione, magari non sarebbero andati all’Irlanda per approdare altrove in Europa.

Soprattutto, non è ammissibile che di fronte alla giusta sanzione europea per quella concorrenza sleale, esercitata sul piano fiscale, lo stesso Paese rifiuti di incassare i proventi della multa erogata con cui potrebbe immediatamente restituire agli Stati prestatori -e dunque ai loro cittadini- il dovuto. Questo episodio consente di cogliere per intero il corto circuito in cui è ormai finita la povera Europa: non ha una disciplina fiscale unica, o quantomeno omogenea, fra i vari Stati membri che possono continuare così a farsi guerra a colpi di aliquote, detrazioni, esenzioni e altre architetture contabili, ma dispone di una fin troppo rigorosa cassetta degli attrezzi per qualificare come “aiuto di Stato” qualsiasi violazione, anche molto sfumata, della libera concorrenza.

Purtroppo questa strumentazione non riesce a sanare i danni della mancata omogeneità fiscale perché spesso non è applicabile proprio per le resistenze degli stessi Paesi, solerti nel chiedere sostegni nei momenti bui, come è avvenuto ad opera dell’Irlanda, ma dimentichi presto degli obblighi contratti. Chi potrà mai costringere seriamente il governo irlandese a farsi pagare da Apple? Più della comune appartenenza europea contano sicuramente il mercato e il fascino dei capitali a cui pare impossibile porre vincoli se è vero che, nel caso delle aliquote irlandesi, Apple avrebbe pagato per 11 anni 50mila dollari di tasse ogni miliardo di fatturato. Dunque sembrano essere le multinazionali a dettare le regole, almeno quelle relative alla tassazione, e gli Stati si adeguano nel tentativo, improbo, di fare concorrenza ai paradisi fiscali; anche l’Italia, in parte lo ha fatto, chiudendo con Apple un accordo che ha “sanato” l’intero arretrato fiscale con poco più di 30 milioni di euro. 
Un’inezia se paragonato a quanto avrebbe dovuto versare la società di Cupertino in base ai propri fatturati.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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