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Dove finisce il boicottaggio – Ae 50

Numero 50, maggio 2004È uno dei principali strumenti in mano ai consumatori. E agli italiani, conferma un sondaggio, piace. Ma la mobilitazione dal basso serve davvero? Il punto sulle alcune tra le campagne più note Il più recente, quello contro…

Tratto da Altreconomia 50 — Maggio 2004

Numero 50, maggio 2004

È uno dei principali strumenti in mano ai consumatori. E agli italiani, conferma un sondaggio, piace. Ma la mobilitazione dal basso serve davvero? Il punto sulle alcune tra le campagne più note

Il più recente, quello contro Bush e le multinazionali che finanziano la sua politica; il più popolare quello contro la Nestlé; il più controverso quello contro i tappeti cuciti a mano dai bambini. Il boicottaggio è uno strumento con il quale segnaliamo alle imprese i comportamenti che approviamo e quelli che condanniamo. E, a quanto emerge da una recente indagine, agli italiani piace.

Secondo un sondaggio realizzato tra giugno e luglio del 2003, infatti, 14 milioni di italiani (31%) dichiarano di “avere rinunciato nel corso dei primi sei mesi dello scorso anno ad acquistare un prodotto, o servizio, o marca per motivi etici”. È un bel 21% in più rispetto a una rilevazione analoga riferita al 2002. Per “prodotti non etici” si intendono “prodotti o marche di una multinazionale che sfrutta i lavoratori”, “prodotti sperimentati sugli animali”, “prodotti di azienda poco sensibile all'ambiente”, “prodotti di azienda che non rispetta i diritti umani”, “prodotti o marche di cui viene fatta una pubblicità maschilista”. I risultati si basano su 2.500 interviste condotte su un “campione rappresentativo” della popolazione italiana tra i 15 e i 74 anni (44 milioni di individui circa). L'indagine è a cura della società di ricerche di mercato Gpf & Associati di Milano. Letti così sono numeri che contano. Ma a questa attenzione degli italiani corrispondono risultati concreti? E, in fondo, il boicottaggio serve più a educare i consumatori o a redimere le aziende?

La buona riuscita di un boicottaggio dipende da numerosi fattori.

Il primo è senz'altro la definizione del fuoco cui puntare l'attenzione. L'oggetto di una campagna deve essere preciso, circostanziato e facilmente individuabile. In termini pratici, è molto meglio concentrarsi su un prodotto specifico, specie se si ha a che fare con multinazionali attive in diversi settori. La campagna contro la Nestlé è un esempio: il tentativo di coinvolgere tutti i marchi ha spuntato l'incisività del boicottaggio, che ormai si trascina da quasi trent'anni.

Allo stesso modo dev'essere possibile misurare gli effetti di una campagna (che sia in termini di danno economico o di immagine, o semplicemente in termini di numero degli aderenti). Molto spesso, invece, le grandi campagne internazionali di boicottaggio sono difficili da monitorare. Per questo è complicato monitorarne l'efficacia.

Un boicottaggio che ha funzionato bene in questo senso è stato quello contro la Shell nel 1995 per protestare contro l'affondamento di una piattaforma petrolifera nell'oceano Atlantico Allora, bastarono quattro mesi per costringere l'azienda a fare marcia indietro e ad ammettere che si era verificato un calo delle vendite dal 20 al 50%.

Un altro elemento importante per la riuscita di una campagna è la strategia di comunicazione messa in piedi dal comitato promotore: solo una buona capacità di comunicare può raggiungere la “massa critica” necessaria per far riuscire una campagna. Accanto a questo, deve esserci continuità: non basta lanciare un boicottaggio, bisogna seguirlo e continuare ad alimentarlo. E, se possibile, renderlo creativo e sempre interessante, un po' come accade con quello contro la McDonald's, dove i colpi di scena non mancano mai.

Soprattutto, i risultati cui si vuole arrivare devono essere scelti con attenzione, perché il senso di un boicottaggio e di una campagna di pressione è modificare i comportamenti di un'azienda ritenuti scorretti. Il danno economico o di immagine (reale o potenziale) è quindi solo il mezzo attraverso il quale indurre al cambiamento.

Perché, in fondo, il boicottaggio nasce dalla crescente consapevolezza che le multinazionali non si limitano a fornire prodotti o servizi, ma sono anche le più importanti forze di influenza politica ed economica del nostro tempo. !!pagebreak!!

Ma la contestazione può diventare una lancia spuntata
Una carrellata sulle principali “battaglie etiche”, da quella più famosa, contro il gigante alimentare svizzero, alla più recente contro Bush jr. Una storia decennale fatta di alti e bassi, che spesso non ha ottenuto i risultati sperati. E la colpa non è sempre delle furbizie multinazionaliù

Nestlé, l'indifferente
La grande beffa del latte in polvere
Malgrado i boicottaggi, Nestlé guadagna e cresce. 27 anni di pressione -il più lungo boicottaggio nella storia dei consumi- non hanno impedito all'azienda svizzera di diventare la più potente multinazionale al mondo in campo agroalimentare e di continuare a violare, indisturbata, il Codice internazionale sulla commercializzazione del latte materno. Ironia della sorte, il Codice è stato il risultato più concreto che la campagna di boicottaggio ha raggiunto, da quando venne lanciata nel lontano 1977.

Vale qui la pena ricostruire alcuni momenti salienti di questa lunga storia caratterizzata da continui alti e bassi: il boicottaggio viene lanciato dall'International Nestlé Boycott Committee per costringere l'azienda a interrompere la promozione dell'uso di latte in polvere, che ogni anno causa la morte di un milione e mezzo di bambini (quasi tre ogni minuto) nei Paesi del Sud del mondo.

Nel 1981, dopo quattro anni di intensa campagna, l'Organizzazione mondiale della sanità promulga il Codice, che la multinazionale acconsente di sottoscrivere tre anni dopo. Gli organizzatori della campagna interrompono il boicottaggio, ma la luna di miele dura poco. Nel 1988 viene lanciato un nuovo boicottaggio, perché si scopre che la multinazionale distribuisce gratuitamente i suoi prodotti negli ospedali, violando, di fatto, il Codice. A oggi la situazione non è cambiata: le violazioni continuano in molti Paesi e a nulla è valsa la protesta della società civile a cui si è aggiunta la voce dell'Unicef. La cosa è davvero difficile da capire, anche perché l'azienda ha pagato sia sul piano dell'immagine (ogni giorno centinaia di persone delle relazioni pubbliche in tutto il mondo lavorano per fronteggiare la cattiva fama di cui gode), che del fatturato: secondo Ethical Consumer, un'organizzazione dei consumatori inglese. il boicottaggio avrebbe influenzato negativamente il bilancio della multinazionale svizzera nel 1993.

Ma da allora, forse, il fervore di molti consumatori si è affievolito: alcuni non ricordano più neppure la ragione del boicottaggio, altri sono un po' confusi perché non sanno se boicottare solo i prodotti a marchio Nestlé, come il Nesquik, o anche il panettone Motta, oppure se boicottare solo quelli della filiera del latte o anche i cosmetici. È la stessa azienda a dare nuovo vigore al boicottaggio nel 2003 quando avanza la richiesta di 6 milioni di dollari al governo dell'Etiopia, per una vecchia questione legata a un esproprio: i consumatori insorgono e il colosso deve fare marcia indietro.

Alla fine dell'anno il bilancio viene chiuso con ricavi pari a 87,98 miliardi di franchi svizzeri, in calo rispetto agli 89,16 miliardi dell'anno precedente e inferiori alle attese degli analisti. Un dato che la Nestlé giustifica con l'apprezzamento del franco svizzero rispetto alle altre valute, non certo con le pressioni dei consumatori, anche se qualche ragionevole dubbio è più che lecito. www.babymilkaction.org 
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Per la pace, contro i brutti vizi di Bush
Anan ha il vizio del fumo. Ma evita rigorosamente sigarette americane: “Per protesta: fumo solo le Sumer, povere sigarette made in Iraq”. Kraft/Altria, ex Philip Morris, padrona del marchio Marlboro e di altri, è fra i top finanziatori della campagna elettorale di George W. Bush nel 2000 e, secondo i dati del Center for Responsive Politics (
www.opensecrets.org) fino al primo marzo 2004 gli aveva staccato assegni per oltre 6,52 milioni di dollari. In pole position fra i donatori anche le due multinazionali petrolifere Exxon Mobil e Chevron Texaco, ringraziate dalle politiche ambientali ed estere bushiste. Come del resto PepsiCo, che adesso potrà finalmente rimettere piede in Iraq dopo anni di taroccamenti locali causa embargo. Quei quattro sono in buona compagnia nella lista dei primi venti finanziatori di George W.; insieme a Halliburton e alla sua controllata Bechtel (fra le maggiori beneficiarie dell'intervento Usa in Iraq), a Microsoft, Citibank, American Express, alla triade farmaceutica Pfizer, Bristol-Meyers Squibb e Glaxo, a Coca Cola e McDonald's. E sono questi i marchi che la campagna internazionale di boicottaggio globale per la pace (www.boycottbush.org) prende di mira, focalizzandosi per forza di cose su quelle che producono beni di consumo universalmente usati: dunque le due benzine, le due bibite, l'hamburger e le sigarette. “Non comprare la guerra” è uno degli slogan della campagna, partita nel 2002. Il movimento pacifista internazionale -e italiano – è più bravo a fare manifestazioni con milioni di persone che a sostenere boicottaggi: così la campagna ha finora avuto uno scarso impatto. I suoi obiettivi: dare uno scossone all'America delle multinazionali che fanno la politica. Che Bush sia o non sia rieletto, la campagna continuerà, finché Washington non si ritirerà dall'Iraq. (mc)

Nike in fuga
In pista la politica del dribbling
Nike corre più in fretta dei boicottaggi: la protesta dura da oltre dieci anni, ma le violazioni continuano. In molte fabbriche i lavoratori subiscono ancora gravi abusi, ma intanto lo swoosh è onnipresente e gli atleti se lo tatuano sulla spalla o sopra l'ombelico. Eppure, quella contro la Nike è forse la campagna più ostinata e meglio pubblicizzata mai condotta: da quando il boicottaggio è iniziato nel 1992, sono apparsi migliaia di articoli e dossier sullo scandalo dei lavoratori sfruttati dalla multinazionale nei Paesi asiatici.

Alcune vittorie, importanti, ci sono state, come quella dei lavoratori di una maquiladora messicana, che nel 2001, dopo nove mesi di battaglie e il sostegno di gruppi internazionali, sono riusciti a creare un sindacato indipendente.

Con il passare degli anni, il boicottaggio ha creato molti problemi all'immagine aziendale tanto che lo stesso Phil Knight, fondatore, primo azionista, amministratore delegato del gruppo, nonché uno degli uomini più ricchi d'America, è apparso più volte per assicurare il suo impegno contro lo sfruttamento nelle sue fabbriche. La sua prima apparizione risale al 13 maggio 1998, in un periodo in cui, per la prima volta, i profitti dell'azienda sono in calo.

A quel tempo, la pressione sull'azienda è molto forte, come dimostrano le manifestazione anti-Nike in 85 città di 13 Paesi, che si svolgono il 18 ottobre 1997, in occasione dell'International Nike Day Action. Inutile dirlo, la multinazionale scarica la colpa dei suoi problemi economici, sulla crisi asiatica, non sulIe campagne dei consumatori. Oggi sono ancora troppe le indagini sindacali e le ricerche accademiche che rivelano che i lavoratori subiscono soprusi e non sono adeguatamente pagati. L'azienda ha persino imparato a dribblare i casi più scottanti, come il licenziamento di 7 mila lavoratori in Indonesia: il lavoro è stato portato in Cina, tout court, senza contribuire al pagamento di indennità di licenziamento e liquidazioni.

In Italia il boicottaggio contro Nike è approdato nel 1996, insieme con quello contro la Reebok e ha visto momenti di forte adesione in occasione dei mondiali di calcio, nel 1998 e nel 2002, grazie alla campagna di Mani Tese contro lo sfruttamento dei bambini nella produzione di articoli sportivi, in particolare palloni. Lo scorso anno l'azione di boicottaggio del Comitato cambia lo sponsor ha ottenuto che i logo Nike venissero cancellati dai campi sportivi che l'azienda aveva donato ad alcune scuole del comune di Roma. www.cleanclothes.org !!pagebreak!!

L'affare colombiano di Coca Cola
I colori antisindacali delle bollicine
Alla fine ce l'hanno fatta: lo scorso 27 marzo, dopo 12 giorni di sciopero della fame, i lavoratori del sindacato colombiano Sinaltrainal sono riusciti a costringere l'azienda al dialogo e al reinserimento di molti lavoratori licenziati. Lo sciopero era iniziato il 15 marzo per protestare contro la chiusura di 14 fabbriche imbottigliatrici e il licenziamento di 600 lavoratori. Il braccio di ferro tra il sindacato e la multinazionale dura da anni e ha raggiunto momenti drammatici con l'uccisione di numerosi sindacalisti.

Da luglio 2003 è in corso un boicottaggio che da Bogotà si è esteso in molti Paesi, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Germania, Irlanda (dove molti pub e ristoranti hanno deciso di non vendere più la bibita e dove alla University College Dublin, la più grande università del Paese, gli studenti hanno partecipato a un referendum contro la vendita della Coca Cola nel campus). In Italia la campagna -che utilizza anche immagini piuttosto forti, come si vede qui sotto- è stata raccolta dalla Rete italiana boicotta Coca Cola, che ha organizzato una raccolta di firme e si è battuta contro la sponsorizzazione di eventi. L'obiettivo del boicottaggio è chiaro: mettere fine al comportamento antisindacale dell'azienda, ottenere il risarcimento delle vittime e il rispetto del Codice di condotta che la Coca Cola si è data fin dal 1977. Ci sono anche altre ragioni che spingono i consumatori a boicottare la multinazionale. In Norvegia è attivo un boicottaggio per costringere l'azienda a risarcire i contadini indiani che sono stati privati dell'acqua per irrigare i campi, a causa dello sfruttamento della falda acquifera di un impianto di imbottigliamento. In Nord America, invece, il boicottaggio si concentra nelle scuole, dove insegnanti e genitori, preoccupati per le cattive abitudini alimentari dei loro figli, richiedono a gran voce che la Coca Cola non goda più del diritto esclusivo di distribuzione. In Canada, ci sono già stati dei risultati in questo senso: da gennaio, Coca Cola e la rivale Pepsi, non possono più vendere le loro bevande nelle scuole elementari e medie.

Il grasso che cola da McDonald's
La polpetta che inquina il mondo
In mente viene subito una vetrina, e un sasso che la rompe.

In un modo o nell'altro, i ristoranti McDonald's sembrano essere divenuti simbolo delle accuse globali alle multinazionali, e insieme le vittime di uno dei boicottaggi più diffusi e conosciuti. Che spesso si è tradotto in veri e propri assalti (il più famoso, e pacifico, quello di José Bové, nel 1999 a Millau). McDonald's è l'antonomasia della multinazionale globalizzata: 30 mila ristoranti in 119 Paesi nel mondo. Ogni giorno 47 milioni di clienti (650 mila in Italia).

Le accuse vanno da questioni alimentari, passano per l'ambiente e arrivano dritto ai lavoratori. I panini sono accusati di favorire una cattiva alimentazione, “istigare” all'obesità, veicolare sofferenze cardiovascolari.

Nei menù si condanna l'utilizzo di aromi, di polli e vitelli allevati in batterie. Dal punto di vista ambientale, McDonald's è insostenibile nel massiccio utilizzo di carne (la cui produzione ha un impatto notevole sull'ecosistema), nell'impressionante spreco di imballaggi (per lo più non riciclabili), nell'utilizzo di organismi geneticamente modificati. Infine, McDonald's è accusata di utilizzare lavoro precario e poco sindacalizzato.

A differenza che negli Usa, in Italia la pressione su McDonald's non sembra aver inciso sulle politiche dell'azienda, che in ogni caso si premura di monitorare gli “umori” della società civile. A volte rispondendo con campagne di “trasparenza”, aprendo le proprie cucine ai clienti. !!pagebreak!!

Banche armate, Unicredit ci ripensa?
“Contro le banche armate”. L'espressione ha avuto successo, per una campagna di pressione nata alla fine del 1999 in occasione del Giubileo. Due gli scopi: attuare un controllo sulle operazioni di appoggio al commercio di armi effettuate dagli istituti di credito, e indurre un ripensamento nei consumatori circa l'utilizzo dei propri risparmi. Lo strumento era e rimane la legge 185 del 1990, che relaziona alla presidenza dei Consiglio dei ministri il volume di queste transazioni, e le banche coinvolte. Ai correntisti l'invito a scrivere ai propri istituti di fiducia per chiedere maggiore trasparenza e la “minaccia” di ritirare i soldi depositati in caso di rifiuto. In questi anni hanno dichiarato l'intenzione di abbandonare il business dell'esportazioni di armi le banche Unicredito, Monte dei Paschi, Cassa di Risparmio di Firenze, Banca Popolare di Bergamo/Credito Varesino e Banca Intesa (quest'ultima proprio negli scorsi mesi).

Tutte sembrano aver mantenuto le promesse, tranne Unicredito (oggi Unicredit), che pare abbia ripreso l'appoggio alle transazioni proprio nel 2003, dopo un anno di interruzione (ma la cosa va ancora verificata). Secondo la relazione 2003 (consegnata il 31 marzo scorso) in testa alle banche armate c'è la Banca di Roma, con 58 operazioni (il 31,1% del totale) per un ammontare di 224,3 milioni di euro. Altre info: www.banchearmate.org

La liberazione degli ananas Del Monte
Il vero successo arriva dal Kenya
La conferma che un boicottaggio può funzionare davvero, ce lo dice l'uomo Del Monte. La campagna contro la multinazionale (che nel 2001 passa alla Cirio) viene lanciata nel 1999 dal Centro nuovo modello di sviluppo per chiedere di correggere il comportamento che la società ha nella piantagione di ananas a Thika, in Kenya.

Le ricerche avviate dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con padre Alex Zanotelli, avevano infatti rivelato che la multinazionale aveva ignorato qualsiasi richiesta di migliori condizioni di lavoro avanzata nel corso degli anni dai sindacalisti della Kenya Union of Commercial Food and Allied Workers.

Obiettivo principale degli organizzatori, la richiesta dell'aumento dei salari e l'abbandono di pesticidi pericolosi. La campagna ha i suoi alti e bassi ma, alla fine, la Del Monte deve arrendersi: il 3 marzo 2001, dopo avere riconosciuto pubblicamente le accuse che le erano state rivolte, l'azienda si impegna in un piano di miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita nelle piantagioni.

Tra i fattori che hanno contribuito al successo della campagna, l'alleanza con i rappresentanti locali dei lavoratori e con numerose associazioni che si occupano di diritti umani. Anche la partecipazione di Coop Italia è stata fondamentale: avendo ottenuto la certificazione SA 8000 (un marchio di garanzia concesso a quelle imprese che dimostrano di rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e di imporre lo stesso codice di condotta ai propri fornitori) la catena di supermercati che vende ananas Del Monte a marchio Coop, ha esercitato pressione sulla multinazionale per costringerla a modificare i propri comportamenti.

Per saperne di più e addentrarsi nei meccanismi pratici di un boicottaggio vale la pena leggere Consumatori del Nord Lavoratori del Sud, scritto da Francesco Gesualdi, Willy Mutunga e Stephen Ouma per le edizioni Emi. !!pagebreak!!

Ma resta fondamentale la collaborazione dei mass media
La strategia dell'alleanza
Da quando la gente ha scoperto che il consumo è potere, si sono intensificate le iniziative di lotta nei confronti delle imprese. Ma nel contempo è cambiato il concetto di boicottaggio. Mentre prima alludeva alla sospensione organizzata degli acquisti, oggi si riferisce a qualsiasi forma di protesta che può andare dal semplice invio di cartoline, a campagne di attacco all'immagine, al volantinaggio, fino alla sospensione degli acquisti. Questa trasformazione è avvenuta perché abbiamo capito che le imprese sono più fragili di quello che danno ad intendere e, a volte, si può vincere senza arrivare allo sciopero degli acquisti.

Una conferma in tal senso viene dalla recente vicenda nei confronti di Coop, che con una lieve pressione ha accettato di mettere di nuovo il nome dei produttori sulle etichette.

Le ragioni per cui alcune campagne si risolvono in poco tempo e altre non sfondano neanche in decenni di lotta, dipendono da molti fattori che le imprese raggruppano sotto due categorie, entrambe di tipo economico. Le aziende, si sa, parlano solo il linguaggio del denaro e quando si trovano al centro di una campagna, decidono il da farsi mettendo a confronto due grandezze: il danno che subiscono dal boicottaggio e il costo che devono sostenere se accolgono la richiesta della campagna. Se la prima voce è più alta della seconda, l'azienda capitola, altrimenti resiste. Dunque se vogliamo vincere, dobbiamo organizzare campagne che sappiano infliggere danni molto alti. Il che ci impone di lavorare bene su quattro fronti. Il primo è quello dell'opinione pubblica. Solo se riusciamo a dimostrare che c'è una forte disapprovazione pubblica possiamo sperare di intimorire le imprese perché la clientela è la cosa a cui tengono di più. Da questo punto di vista si deve curare bene la comunicazione e il materiale informativo.

Il secondo fronte, molto legato al primo, è quello dei mass-media. Dobbiamo fare il possibile per indurli a occuparsi della nostra iniziativa, perché ciò dà visibilità alla campagna e procura nuovi aderenti. Del resto, le imprese temono la pubblicità negativa perché sanno che allontana il pubblico da loro.

Il terzo fronte è quello delle alleanze. Parlando di campagne per la difesa dei diritti dei lavoratori, una forza fondamentale è il sindacato. Se poi si tratta di diritti di lavoratori esteri è fondamentale l'alleanza con le associazioni del Paese in cui si trova la fabbrica o la piantagione. Questo rende le cose più difficili, ma la campagna Del Monte ci ha insegnato che le alleanze internazionali sono determinanti.

Il quarto fronte è quello dei partner commerciali dell'azienda. Dobbiamo studiarli per capire se qualcuno di loro può essere forzato a schierarsi dalla nostra parte, affinché eserciti anch'esso pressione.

Naturalmente si possono anche organizzare campagne che non tengono conto di nessuno di questi aspetti, ma ciò può andar bene solo se l'obiettivo principale è la sensibilizzazione dell'opinione pubblica. In questo caso il contenzioso ha più finalità pedagogiche che politiche. È un modo per dare concretezza alla nostra denuncia e per allenare la gente a partecipare. Poiché le campagne possono avere questa duplice finalità, è bene che il gruppo organizzatore abbia ben chiaro quale obiettivo si prefigge. Ciò evita di partire col piede sbagliato e di sprecare energie per ricercare alleanze non necessarie. Insomma, prima di mettersi in viaggio, è bene chiedersi dove si vuole arrivare e se abbiamo il mezzo adeguato. Nel corso di questa verifica potremmo anche accorgerci di non essere attrezzati per andare così lontano come ci eravamo prefissi. Ma potremmo decidere di proseguire lo stesso per una mèta meno ambiziosa. È‚ meglio una piccola iniziativa ben fatta, che un grande progetto mal gestito.

Francesco Gesualdi!!pagebreak!!

Sviluppo , il nuovo modello arriva da qui
Il Centro nuovo modello di sviluppo è un centro di documentazione sorto nel 1985 a Vecchiano, nei pressi di Pisa. Tra le varie attività, il Centro un'attività di sensibilizzazione politica per indurre la gente del Nord a mobilitarsi a fianco della gente del Sud attraverso nuovi stili di vita e attuando varie forme di non-collaborazione e di pressione popolare di tipo nonviolento. Tra le campagne più importanti promosse dal Centro ricordiamo la campagna Chicco/Artsana per garantire un indennizzo alle 87 vittime dell'incendio alla fabbrica cinese di Zhili, la campagna Chiquita concordata con i sindacati del Centro America per garantire i diritti sindacali ai lavoratori delle piantagioni di banane, la campagna Acquisti Trasparenti per ottenere una legge che induca le imprese a rispettare i diritti dei lavoratori e la campagna Del Monte in Kenya.

Dal 1996 il Centro gestisce un sito internet sulla dignità del lavoro, visitabile all'indirizzo http://www.citinv.it/associazioni/CNMS.

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