Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Attualità

Dopo quindici anni il G8 di Genova è una ferita aperta per l’Italia

Sbiadisce il ricordo della Diaz e Bolzaneto, e nonostante la condanna della Corte europea per i diritti umani, non c’è ancora una legge contro la tortura. E i nomi dei poliziotti condannati sono stati oscurati nella banca dati della Cassazione. Il 15 luglio nel capoluogo ligure un convegno a Palazzo Ducale

Tratto da Altreconomia 184 — Luglio/Agosto 2016
© Andrea Semplici

Do you remember il G8 di Genova? C’erano George W. Bush, Silvio Berlusconi e Tony Blair; c’erano i black bloc e i gruppi scout, le bandiere rosse e quelle arcobaleno; c’erano soprattutto i manganelli e i falsi verbali d’arresto di forze di polizie uscite per giorni dai canoni tipici di una democrazia. Sono trascorsi quindici anni e non è acqua passata. In quei giorni -luglio 2001- il tema politico del momento era la mobilitazione globale di milioni di cittadini. Contestavano le oligarchie politiche e finanziarie che governano il Pianeta; chiedevano per le persone la stessa libertà di movimento prevista per capitali e imprese; volevano la cancellazione del debito dei Paesi più poveri. In breve: il movimento che si batteva per una “globalizzazione dei diritti” era al centro della scena e la città di Genova, fra il 16 e 22 luglio, sarebbe stato il suo palcoscenico internazionale. Sappiamo com’è andata a finire. La mobilitazione fu enorme e piena di entusiasmo ma la contestazione ai cosiddetti “otto grandi” sarà ricordata ancora a lungo per la definizione che ne diede all’epoca Amnesty International, come “la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente”.

Un ragazzo genovese, Carlo Giuliani, fu ucciso da un carabiniere in piazza Alimonda, vicino alla stazione Brignole; migliaia di persone furono attaccate per strada dalle forze di polizia a colpi di manganello e con abnormi lanci di lacrimogeni; gli arresti ingiustificati non si contarono; infine decine e decine di persone subirono violenze e maltrattamenti gravissimi nella scuola Diaz, in un quartiere borghese della città, e in una caserma di polizia adibita a carcere nella frazione periferica di Bolzaneto. Fu un tracollo dello stato di diritto; si vissero giornate e nottate all’insegna del sistematico abuso di potere. 

Secondo Amnesty, l’operato delle forze dell’ordine durante il G8 di Genova ha rappresentato “la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente”

Sono passati quindici anni e molto sappiamo di quel che avvenne in quelle drammatiche giornate e perché. Conosciamo anche nomi e cognomi dei responsabili, grazie ai processi che la magistratura genovese è riuscita a portare a termine nonostante gli ostacoli frapposti dai vertici istituzionali e di polizia. Sappiamo -è scritto nero su bianco nelle sentenze- che alla Diaz e a Bolzaneto fu praticata la tortura su decine di cittadini inermi da parte di molti agenti e funzionari delle forze di polizia e nell’indifferenza complice di colleghi e superiori. 

Sono passati quindici anni e c’è una domanda obbligata in attesa di risposta: che cosa si è fatto per punire i responsabili e prevenire ulteriori abusi? Come ha reagito lo Stato a quella spaventosa eclisse della democrazia? Che lezione ne ha tratto il Paese? 

Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto in una democrazia davvero funzionante. I vertici di polizia avrebbero reagito con indignazione, avviando rigorosi procedimenti disciplinari, sospendendo immediatamente gli agenti coinvolti negli episodi più gravi, per poi escluderli dal servizio se rinviati a giudizio e allontanarli definitivamente se condannati. Il Parlamento avrebbe istituito un’inchiesta al fine mettere a fuoco il malessere interno alle forze di polizia, avviando poi una riforma democratica degli apparati, con la rimozione dei dirigenti ormai compromessi e una profonda revisione dei criteri di formazione e selezione del personale. 

Tutti i responsabili delle violenze sarebbero stati puniti e il Parlamento avrebbe preso sul serio le indicazioni contenute nelle sentenze, approvando regolamenti e leggi per introdurre l’obbligo di indossare codici di riconoscimento sulle divise e lo specifico reato di tortura nell’ordinamento penale. 

Niente di tutto questo è avvenuto. Alcuni, solo alcuni, dei responsabili sono stati puniti grazie alle condanne inflitte dai tribunali, ma i più sono sfuggiti alla legge grazie alla mancata identificazione, alla prescrizione e anche all’assenza di azione giudiziaria (numerosi abusi compiuti per strada non sono stati perseguiti). Le uniche sospensioni sono state inflitte dai giudici come pena accessoria ai condannati nel processo Diaz, mentre i vertici di polizia e il ministero non hanno avviato veri procedimenti disciplinari. La proposta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta fu bocciata per la defezione di alcuni deputati della maggioranza parlamentare che la proponeva.

No, l’Italia non ha fatto i conti con Genova G8 e perciò non è acqua passata. Continua a prevalere l’enorme desiderio di rimozione che ha impedito agli apparati dello Stato di agire come si dovrebbe fare in un Paese democratico e maturo. L’ultimo episodio della serie ha tratti grotteschi quanto inquietanti. Qualcuno si è accorto che nelle banche dati della Cassazione, alle quali possono accedere giudici e studiosi, nel dispositivo della sentenza Diaz erano stati oscurati i nomi dei condannati (e la sentenza Bolzaneto era oscurata in attesa di analoga sorte). Un’anomalia, perché la copertura dei nomi è concessa in casi molto particolari e a tutela “dei diritti e della dignità degli interessati”. Si tratta in genere di casi scabrosi, a sfondo sessuale o tali da nuocere a familiari e altri congiunti dei condannati. Ma le vicende Diaz e Bolzaneto riguardano abusi di potere e da proteggere, semmai, c’è solo l’identità delle vittime. Forse qualcuno ha voluto proteggere i funzionari e dirigenti condannati da brutte figure sugli articoli giuridici che saranno scritti in futuro? Il senatore Luigi Manconi ha presentato un’interrogazione per sapere chi e a che titolo abbia chiesto e ottenuto la cancellazione, in apparenza immotivata. Sono passate poche settimane e ancora prima che arrivasse una risposta ufficiale in Parlamento, i nomi sono ricomparsi. Ora toccherà al governo, in replica a Manconi, chiarire che cos’è successo, ma l’episodio è emblematico della difficoltà mostrata dagli apparati dello Stato nel digerire le dure sentenze dei giudici genovesi.

Una difficoltà che investe in pieno anche il Governo, il Parlamento, le varie forze politiche, incapaci di compiere un atto dovuto come il varo di una legge sulla tortura. Un anno fa, all’indomani della clamorosa condanna subita dall’Italia alla Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, il presidente del Consiglio assicurò una pronta risposta: l’approvazione immediata della legge sulla tortura, da tempo ferma in Parlamento. Era il 7 aprile 2015. Due giorni dopo fu in effetti approvato alla Camera un testo di legge, in più punti distante dagli standard normativi indicati dalla Convenzione internazionale contro la tortura. Quel testo, pur carente e da molti giudicato inadeguato, fu comunque avversato dai vertici di polizia, finanza e carabinieri, che vi vedevano un attacco alla credibilità delle forze dell’ordine. Tre mesi dopo, quindi l’estate scorsa, una burrascosa audizione in commissione al Senato del capo della Polizia, Alessandro Pansa, portò a un improvviso ribaltone: il testo uscito da Montecitorio fu cambiato per renderlo più gradito alle forze dell’ordine, introducendo addirittura -fra altre norme a dir poco inconsuete- il principio delle “violenze reiterate” come condizione per poter parlare di tortura: un caso unico al mondo, un modo per vanificare dall’interno la possibilità di applicare in concreto il crimine di tortura e per disinnescarne tutta la forza persuasiva in chiave di prevenzione. L’iter legislativo a quel punto si è fermato e non è chiaro se, quando e soprattutto come riprenderà. Sappiamo però che i vertici delle nostre forze dell’ordine mostrano disagio e diffidenza rispetto agli standard normativi internazionali in materia di diritti umani e di limiti all’azione delle polizie. L’attuale Parlamento, dal canto suo, si è rivelato inadeguato a svolgere i suoi compiti di indirizzo e controllo che devono essere esercitati, quando è il caso, anche contro i desiderata degli apparati di sicurezza. Sono passati quindici anni e il caso Genova G8 è ancora aperto.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.