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Ambiente

Dopo i referendum, conseguenze e proposte

I ballottaggi di Milano e Napoli e i referendum sull’acqua devono offrire motivi di seria riflessione a chi desideri cambiare seriamente il Paese.Sia a Milano che a Napoli sono stati eletti sindaci degnissimi, ma esterni alle logiche dei maggiori partiti:…

I ballottaggi di Milano e Napoli e i referendum sull’acqua devono offrire motivi di seria riflessione a chi desideri cambiare seriamente il Paese.
Sia a Milano che a Napoli sono stati eletti sindaci degnissimi, ma esterni alle logiche dei maggiori partiti: è come se il popolo avesse detto “facciamola finita!”.
Ma farla finita in assoluto non è facile; la crisi della democrazia, di solito, implica l’avvento delle peggiori dittature. Difficile anche distinguere tra fine della democrazia e fine della partitocrazia (quest’ultima certamente desiderabile, ma difficilmente scindibile dalla prima).
L’esito dei referendum sull’acqua offre però qualche prima opportunità nel senso desiderato.
Gli ululati che cominciano ad alzarsi (chi farà agli investimenti necessari ora che il profitto non è più garantito? Ci aumenteranno le tasse? Era questo che si voleva? Ecc. ecc.) dimostrano che i referendum hanno toccato un punto sensibile. Nelle svariate società miste che gestiscono il servizio idrico in Italia (Acea, Publiacqua e simili) coesistono enti locali, società multinazionali, banche, capitalisti privati, ecc.
Si tratta quindi di un coacervo di interessi tutt’altro che trascurabili, specie se si tiene conto del fatto che troppo spesso gli interessi pubblici sono rappresentati e gestiti da sindaci di piccoli Comuni o da funzionari fin troppo sensibili agli interessi dei soci più forti: non a caso le convenzioni che regolano le concessioni sono –solitamente– redatte da banche e multinazionali, ed accettate bovinamente dai Comuni concedenti, con il risultato che quasi sempre le minoranze private hanno poteri superiori a quelli delle maggioranze pubbliche. Di questi poteri i privati si servono non solo per aumentare le tariffe a scapito dei cittadini, ma anche per effettuare investimenti che di regola risultano molto inferiori a quelli previsti dalle convenzioni e per evitare controlli sulla qualità dell’acqua fornita. Controlli, del resto, che anche quando vengono realmente effettuati non vengono portati a conoscenza degli utenti, che si trovano a dover pagare per un prodotto/servizio ben poco utilizzabile, e comunque non sempre all’altezza di quello che sarebbe previsto in convenzione.
Nel caso della totale pubblicizzazione del servizio idrico, gli investimenti necessari a rendere decente la rete acquedottistica italiana, che perde oltre un terzo del liquido immesso, che non sa fare fronte alle necessità di depurazione e di riciclaggio per usi agricoli dei reflui, ecc. ecc. potrebbero non essere posti a carico della fiscalità generale facendo ricorso allo strumento del prestito irredimibile: in altri termini, vendendo una rendita perpetua a quanti volessero acquistarla, senza aggravare il disavanzo pubblico e offrendo al risparmio privato un’opportunità di investimento, finalizzato a finanziare un’iniziativa pubblica; è evidente che, da un lato, l’investitore potrebbe tornare in possesso del capitale investito cedendo la rendita ad altri: e che, dall’altro, il miglioramento di efficienza del sistema idrico dovrebbe bastare abbondantemente a pagare gli interessi sul prestito.
Sia questo il sistema prescelto o se ne preferiscano altri, resta il fatto che cominciare a smontare il coacervo di interessi che si è venuto creando sull’acqua potrebbe essere il primo passo verso quella semplificazione e moralizzazione del sistema politico/finanziario italiano, che le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato essere richieste della maggioranza degli italiani. E, pur trattandosi di una piccola cosa, è vero che i grandi cambiamenti spesso cominciano proprio dalle piccole cose.

* ex direttore centrale dell’Iri

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