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Donald Trump e i rischi della sua “battaglia contro il sistema”

Secondo la democratica Hillary Clinton è il “candidato più pericoloso nella storia degli Usa”, ma il repubblicano -abbandonato anche dall’establishment del suo partito- si è fatto paladino “del riscatto degli americani colpiti dalla crisi”, spiega Alessandro Volpi. Per questo il voto dell’8 novembre è importante, e rischioso

Donald Trump ed Hillary Clinton, i due candidato alla presidenza degli Stati Uniti, durante uno dei confronti elettorali in vista del voto dell'8 novembre

Neppure il più ardito degli autori di testi di fantapolitica avrebbe immaginato un epilogo così clamorosamente “scorretto” della campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Gli scontri televisivi fra i due sfidanti hanno raggiunto toni davvero incredibili con reciproche accuse e minacce, ben oltre ogni ammissibile limite.

Donald Trump ha dichiarato infatti che, qualora vincesse le elezioni, farebbe arrestare la Clinton mentre in caso di sconfitta ha fatto balenare la sua indisponibilità a riconoscere il successo della ex first lady, in quanto “incandidabile”. Hillary Clinton si è invece autoproclamata l’ultimo baluardo contro “l’Apocalisse”, identificandola con il tycoon dagli improbabili capelli, a cui ha attribuito anche l’epiteto del “candidato più pericoloso nella storia degli Usa”. È evidente, in simili condizioni, che l’elettorato americano si spaccherà in due parti molto difficilmente ricomponibili; il livello dello scontro fra i candidati minaccia così di strappare in maniera drammatica il tessuto civile e sociale della più grande potenza del mondo.
Chi voterà Trump non potrà riconoscere alcuna legittimità a chi sceglierà la candidata democratica, e viceversa. Ma l’aspetto forse ancora più irreale è un altro: ormai Trump è stato ostracizzato per la sua misoginia, per le sue paranoie, per i tanti sentimenti di odio manifestati e per il suo culto della personalità non solo dagli avversari ma anche da una gran parte dei repubblicani che non perdono occasione di prendere le distanze dal loro ipotetico leader.

Si sono dissociate da Trump praticamente tutte le anime del partito repubblicano, dai grandi “vecchi” come Joseph McCain e Condoleezza Rice, a governatori e senatori in carriera come John Kasich, John Thune e Kelly Agotte. Alla luce di ciò, la partita sembrerebbe chiusa, come del resto preannunciano numerosi sondaggi, forti anche del fatto che contro Trump si sono schierati tutti i giornali americani, il mondo dei media, i sindacati, Wall Street e Main Street, comprese le major petrolifere e automobilistiche. Trump, quindi, è solo; ma di questa solitudine ha deciso di fare la propria forza. Dopo l’abbandono dei sodali di partito ha dichiarato di avere finalmente le “mani libere” e di poter agire in totale “indipendenza” come l’unico autentico interprete della “battaglia contro il sistema”, condotta a difesa dei “veri americani”, vittime degli stranieri, del fisco rapace, della disoccupazione e dei “moralismi ipocriti”, costruiti ad arte per coprire una corruzione dilagante.

Soltanto chi è osteggiato da tutti gli attori del sistema di potere, può dimostrare di garantire il riscatto degli americani colpiti dalla crisi, nata proprio per la fame di denaro di banche, politici, sindacati e cattivi imprenditori. Una volta isolato, Trump ha accentuato rapidamente i suoi slogan scorretti e non ha esitato ad indossare gli abiti del cattivo che vuole smascherare i falsi buonismi, incarnati dalla Clinton.
Il suo messaggio contraddittorio nei contenuti, intollerante e intollerabile è il primo esempio, nella nuova era delle democrazie, di un chiaro, e purtroppo forse anche efficace, bullismo politico, ormai ben oltre i populismi che devono, comunque, conservare almeno una apparenza di correttezza politica.
Trump è un groviglio di istinti, tenuti insieme dall’odio e dalla paura, ideale per i social media, per la loro continua ed alimentata ostilità verso tutti e verso tutto. Si tratta di un linguaggio capace di attrarre chi vive chiuso nella propria dimensione individuale, informato e condizionato dal contatto con tante altre, analoghe, esperienze individuali, frustrate e perdenti. Il cattivo e solitario Trump declina così sotto forma di incubo il sogno americano, divenendo il possibile eroe di una rivolta popolare che aborre, in maniera tombale, ogni ideologia definita, ogni realtà strutturata e ogni appartenenza.
Il forte “americanismo” del magnate non si fonda su valori, ideali, storia e tradizione, ma è la rivendicazione di un egoismo autoreferente che chiama sé America.

Sarà decisivo, dunque, capire quanti saranno gli elettori americani che si sentono fuori dal “sistema” -da quello sanitario, a quello economico, a quello culturale e politico- e che, avendo aderito fino ad oggi al “partito del non voto”, decideranno di andare a votare perché ritengono la “protesta scorretta e aggressiva” di Trump più efficace dell’astensionismo. Certo, l’avversaria Hillary Clinton, data per vincente sicura, in questo gioco delle parti tra bene e male messo in piedi dalla stampa e dallo stesso partito democratico, fatica a rappresentare fino in fondo l’America sana e consapevole, perché pesano su di lei gli errori del “clintonismo” e soprattutto gli effetti della più grande crisi finanziaria di sempre. In tale ottica, le elezioni americane dell’8 novembre sono davvero il primo voto che dovrà dire, agli Stati Uniti e al mondo, se la crisi è finita o meno. Se non lo fosse, la rivolta antisistema potrebbe spingere Trump e farne un modello non solo Oltreoceano.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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