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Donald Trump, l’immagine sguaiata del leader

© Gage Skidmore via Flickr

Il nuovo linguaggio della politica, incarnato dal presidente americano, sovverte gli schemi tradizionali per sostituirli con la prosopopea dell’uomo forte che fa e dice tutto ciò che vuole. L’analisi di Alessandro Volpi

Il presidente degli Stati Uniti  Donald Trump si è recato, la scorsa settimana, con la preoccupata moglie in Russia per celebrare i mondiali di calcio, compiendo l’ennesimo tour delle “nuove amicizie” americane. Ha ricevuto in dono un bel pallone da portare a casa ai figli, regalatogli dal presidente russo Vladimir Putin che ormai è già al quarto presidente a stelle e strisce ricevuto al Cremlino, a conferma della stabilità delle “vere” democrazie. Nel frattempo, nei vari incontri,  The Donald ha trovato il modo di dichiarare guerra alla vecchia Europa, di affermare  di credere a Putin e ai suoi agenti e non all’Fbi in materia di elezioni Usa.

Tornato in patria è stato sommerso dalle critiche e dunque, in maniera repentina, ha cambiato idea sostenendo di essere stato clamorosamente frainteso e di considerare la Russia un pericolo. Non contento, però, due giorni dopo queste smentite è tornato a invitare Putin a Washington e ad aggredire l’Europa, rea di avere multato Google, contro cui fino a poche settimane prima si era pronunciato lo stesso presidente americano.

Ma come è possibile tutto ciò? Perché un presidente forse ormai dell’ex più grande democrazia del pianeta sovverte una tradizione di relazioni internazionali e poi cambia subito idea per cambiarla di nuovo a poche ore di distanza? Perché tante stravaganze? Certo pesano i possibili ricatti russi sul passato di Trump e le pressioni che il presidente subisce per il pericolo di rivelazioni scottanti. Pesano altrettanto le congenite simpatie dello stesso Trump per il decisionismo dei dittatori, contrapposti, nella sua visione, alle melense democrazie e al loro inutile sistema di garanzie.

Forse c’è anche altro. Sta affermandosi una retorica della sparata grossa destinata a divenire rapidamente fake news che è fatta, scientemente, per dimostrare la propria forza e la propria indipendenza. In questo senso la costante alterazione dei confini tra vero e falso, tra credibile e incredibile, tra serio e faceto pare essere un fatto del tutto nuovo che non assomiglia ad altri precedenti storici; non è una manipolazione voluta della verità a fini di egemonia politica, come avvenne con il dispaccio di Ems prodotto da Bismarck, quando il cancelliere prussiano decise di stravolgere la verità dei fatti per eccitare l’opinione pubblica francese alla guerra contro la Germania.

Le stramberie di Trump non sono accostabili neppure a forzature mirate come avvenne nel 1898 per il casus belli dell’affondamento della nave “Maine”, che fu all’origine della guerra ispano-americana dopo la violenta campagna di stampa avviata dalla presidenza americana per far passare l’episodio come un vero e proprio attentato spagnolo. O, più di recente, per il riferimento al possesso da parte dell’Iraq di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa. Si tratta piuttosto di una pura affermazione di autocrazia autoreferente, di rottura istituzionale, di populismo senza regole, da cui emerge un culto della personalità che è innamoramento di sé e, al tempo stesso, negazione di una dimensione riflessiva della politica.

Trump in realtà è solo uno dei tanti interpreti di questo nuovo culto che affida all’immagine sguaiata del leader tutta la forza del suo messaggio politico. Il leader dice e fa tutto quello che gli passa per la testa e la sua stravaganza, dai bagni in costume, ai tweet alle sparate alla truce violenza verbale, è il sintomo della sua libertà, secondo una dimensione che cancella la divisione dei poteri, la rappresentanza parlamentare e il complesso armamentario delle democrazie contemporanee per ripristinare forme molto più elementari e dirette di cesarismo di nuova generazione.

Il nuovo linguaggio della politica sovverte quindi ogni grammatica consolidata e qualsiasi chiave di lettura razionale per sostituirli con la prosopopea quasi mitologica dell’uomo forte e, al tempo stesso, fuori da ogni controllo, che trae il proprio consenso dalla continua e imprevedibile ritualità del personaggio senza vincoli e quindi anti-politico per definizione. La celebrazione dell’immediatezza, della spontaneità, tanto visibile quanto costruita, dell’analfabetismo istituzionale e, per molti versi, dell’incompetenza fonda il sentimento di adesione naturale all’immagine del leader che non è più “il migliore” dei rappresentanti della volontà popolare, ma l’immediata trasposizione dei comportamenti del popolo, rispetto alla quale ogni filtro, culturale e politico, viene vissuto come una pericolosa violazione “intellettualistica” del sentire più vero e autentico.

Università di Pisa

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