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Cultura e scienza / Intervista

Matteo Schianchi. La disabilità agli occhi del cinema

Divenuto un filone di successo sul grande schermo, il tema non riesce sempre a emergere nella sua dimensione politica. Intervista al ricercatore dell’Università Bicocca di Milano

Tratto da Altreconomia 205 — Giugno 2018
I protagonisti del film “La teoria del tutto”. L’attore Eddie Redmayne (a destra) ha interpretato l’astrofisico Stephen Hawking (al centro, accanto a Felicity Jones)

Per calarsi nei panni di Stephen Hawking, l’attore britannico Eddie Redmayne ha raccontato al quotidiano “The Guardian” di aver dovuto allenare il proprio corpo come quello di un ballerino: “Imparando ad accorciare i muscoli anziché allungarli”. Uno sforzo, anche fisico, necessario per interpretare al meglio l’astrofisico (recentemente scomparso) affetto da atrofia muscolare progressiva e che è valso a Reemayne il premio Oscar come migliore attore per la sua interpretazione ne “La teoria del tutto”. Un riconoscimento che, prima di lui, era andato ad altri attori che si erano calati nei panni di persone con disabilità: a Tom Hanks nel 1995 per “Forrest Gump”, a Daniel Day-Lewis nel 1990 per “Il mio piede sinistro”.

“La disabilità al cinema funziona. È diventato un filone di successo”, spiega Matteo Schianchi, storico, ricercatore presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca e appassionato di cinema. All’indomani di un incidente in cui ha perso un braccio e una gamba, Schianchi ha deciso di orientare il suo lavoro di ricerca agli studi sulla disabilità con un diploma e un dottorato, conseguito nel 2017 in “Storia sociale della disabilità” presso l’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi: “Una disciplina ancora poco diffusa in Italia che racconta i meccanismi sociali e culturali attraverso cui la disabilità era vissuta e percepita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento”, spiega Schianchi che a questo tema ha dedicato anche il saggio “Storia della disabilità. Dal castigo degli déi alla crisi del welfare” (Carocci, 2013).

Quando il cinema ha iniziato a occuparsi di disabilità?
MS Lo fa sin dalle sue origini. Il cinema ha sempre parlato di disabilità e lo fanno praticamente tutti i generi cinematografici. Lo fa per due ragioni specifiche: innanzitutto la disabilità ha una funzione simbolica. I personaggi con disabilità permettono di rappresentare una gamma vasta e articolata di emozioni e sentimenti, coinvolgendo così in maniera molto forte lo spettatore. La seconda ragione è di tipo narrativo: la presenza di un personaggio con disabilità in un film permette di sparigliare le carte.

Ci sono forme di disabilità che sono state più rappresentate di altre?
MS Certamente le disabilità fisiche e sensoriali hanno trovato molto spazio sul grande schermo. Mentre le disabilità intellettive sono state sotto-rappresentate. Questo avviene anche per una questione di immedesimazione: per lo spettatore è più facile mettersi nei panni di una persona che fatica a essere accettata, che non si riconosce più nel proprio corpo, che deve affrontare delle difficoltà e che ha il coraggio di affrontare molte sfide. Per contro, è più difficile riconoscersi in un personaggio con disabilità intellettiva che “funziona” in modo diverso da noi.

Che impatto ha il cinema nel modo in cui vediamo la disabilità?
MS Il cinema -sia quello indipendente sia quello che viene definito “di cassetta”- ha il grande potere di costruire l’immaginario collettivo. Fatta eccezione per chi vive la disabilità sulla propria pelle o in famiglia, tante persone conoscono la disabilità perché l’hanno vista al cinema. Nel caso dell’autismo, ad esempio, si pensa di conoscerlo perché si è visto “Rain man”, in realtà l’autismo è anche molto altro, non a caso in letteratura si parla di “disturbi”, al plurale, dello spettro autistico.

Come si è evoluta la presenza della disabilità nel cinema?
MS Nel 1932, il film “Freaks” di Tod Browning capovolge la narrazione precedente che vedeva i diversi come mostri e fenomeni da baraccone. Nel secondo dopoguerra, invece, la disabilità si “normalizza”, l’industria cinematografica americana porta sullo schermo personaggi molto vicini alle persone comuni. Questi film sono un inno alla vita, raccontano le sfide e le difficoltà, l’esigenza di essere amati e capiti. Un ulteriore passaggio si registra tra gli anni Settanta e Ottanta, quando la disabilità viene usata in molti film come un manifesto contro la guerra, pensiamo ad esempio a “Nato il 4 luglio” o “E Johnny prese il fucile”.

Quindi, il tema della disabilità non è così marginale sul grande schermo
MS Affatto, ci sono tantissimi film che affrontano il tema della disabilità e hanno anche avuto un grande successo, pensiamo a “Il mio piede sinistro”, “Forrest Gump”, “Figli di un dio minore”, “Il discorso del re” o “La teoria del tutto”.

A tuo avviso, il cinema è in grado di restituire una visione corretta della disabilità?
MS Purtroppo no. Perché non è in grado di scalfire gli stereotipi sulle persone con disabilità di cui si sottolineano, da un lato, le sofferenze e le sfortune. O all’opposto, una dimensione quasi eroica. Inoltre, spesso questi film si concludono con un lieto fine che, nella vita reale, non sempre c’è. Di fronte a questa raffigurazione, noi spettatori siamo confortati, forse emozionati quando usciamo dalla sala, ma senza che le nostre chiavi di lettura della disabilità siano cambiate.

Che cosa manca al cinema per fare un passo in avanti sulla narrazione della disabilità?
MS Dovrebbe cercare di uscire dagli schemi già battuti, continuando certo a emozionare gli spettatori, ma è importante portare la narrazione a un livello nuovo. Quando si parla di disabilità, al cinema manca una dimensione politica. Pensiamo, al tema del precariato che nel cinema è stato rappresentato anche da un punto di vista sociale e politico. Nella disabilità questo non c’è. La disabilità viene sempre vista come trauma umano e come specchio esistenziale. Non si passa mai da questo livello individuale a uno politico, inteso nel senso più alto e più nobile del termine.

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