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Approfondimento

Diritto all’oblio, i dati smentiscono Google

A metà luglio il Guardian ha pubblicato i dati reali sulle richieste di rimozione di contenuti imposte al colosso multinazionale dalla Corte di giustizia europea un anno fa. Il 95% di queste proviene da persone comuni, contrariamente a quanto sostenuto da chi temeva la vittoria della "censura" sul web. I nodi ancora irrisolti della responsabilità del trattamento dei dati personali e del fisco

Il 13 maggio scorso Google non ha dedicato alcun “doodle” al primo compleanno della storica sentenza comunitaria sul “diritto all’oblio”. E la ragione è semplice: quel giorno, un anno fa, la Corte di giustizia europea aveva imposto al colosso multinazionale -riconosciuto come soggetto responsabile del trattamento dei dati personali degli utenti- la rimozione dai propri indici di contenuti su richiesta degli interessati. Un colpo durissimo per la natura commerciale e pubblicitaria su cui si fonda saldamente il bilancio del motore di ricerca (cui è dedicato ampio spazio nel nostro "Trolls Inc.").
 
Quella che fu definita come la sentenza sul “diritto all’oblio” venne però etichettata da alcuni frettolosi osservatori come la “morte del giornalismo”, posta su “un confine sottile con la censura”. Agli occhi dei detrattori, infatti, “in nome del ‘web libero da controlli’, la Corte pone le premesse per un web dove leader politici, banchieri, industriali, manager possano cancellare […] le loro malefatte” (così Gianni Riotta su La Stampa).
 
Questo tetro scenario dove influenti politici o banchieri avrebbero costretto Google a cancellare la “storia” a danno della democrazia, però, è stato letteralmente spazzato via dalla pubblicazione di dati inediti interni alla multinazionale da parte del Guardian, alla metà del mese di luglio.
 
Senza volerlo, Google ha infatti permesso a Sylvia Tippmann e Julia Powles di entrare in un’area nascosta dell’annuale “Transparency report”, mostrando così dati contenuti dentro un codice sorgente abitualmente negato ad osservatori esterni (“Era un test”, la giustificazione). Che cosa è venuto fuori? Che delle 218.320 richieste di rimozione pervenute a Google dalla fine del maggio 2014 al marzo di quest’anno, meno del 5% riguardavano criminali, politici o persone dalla rilevanza pubblica. 
 
Anche il nostro Paese, pur discostandosi dalla media -l’84,9% delle richieste di rimozione è “comune” (in Romania è l’87% e in Ungheria l’88%) e l’11,9% ricade sotto la dicitura “serious crime” (il resto è “altro”)-, è una dimostrazione dell’oggettiva strumentalità del panico indotto dalla comunicazione della società, retto su un presunto conflitto tra “privacy e informazione”. Il vero conflitto era ed è tra quel ciò comporta assumersi responsabilità per il trattamento dei dati personali di persone comune e le mani libere, condizione che Google pretende per l’esercizio (legittimo) della propria attività commerciale. 
 
Su questo punto in particolare, la “Dichiarazione dei diritti in Internet” elaborata dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet voluta da Laura Boldrini e presieduta da Stefano Rodotà, è stata puntuale. All’articolo 11, infatti, si legge che “Ogni persona ha diritto di ottenere la cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei riferimenti ad informazioni che, per il loro contenuto o per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza pubblica”.
 
Ma la questione Google non si esaurisce all’oblio. La norma che la obbligava a fatturare in Italia l’ammontare dei contratti pubblicitari è scomparsa dai radar. E in attesa che la filiale italiana depositi il bilancio 2014, è utile guardare all’ultima relazione dell’AGCOM per avere una stima degli affari che Google matura in Italia, fatturando però in Irlanda con la Google Ireland Ltd, casa madre che riconosce una semplice royalty per i “servizi di marketing” alla succursale nazionale.
 
Secondo la Relazione annuale 2015 dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, infatti, Google è il primo “operatore attivo nella raccolta pubblicitaria online in Italia”, capace persino di rafforzare “una quota superiore al 30%”. A differenza di altre fonti, per le quali il fatturato pubblicitario in rete complessivo sarebbe ben al di sopra dei 2 miliardi di euro, l’Autorità ha quantificato in 1,63 miliardi l’ammontare dei ricavi. Il 30% di questa cifra prudenziale è pari a 489.600.000 euro, cifra profondamente distante dai ricavi dichiarati dalla Google Italy Srl a fine 2013: 49 milioni di euro. 
 
Ci fosse una regolamentazione equa del fisco e -finalmente- una revisione del ruolo e delle responsabilità delle piattaforme di navigazione per i contenuti generati da terzi ed il trattamento dati dell’utenza (vale per Google come per Facebook e Twitter), forse la “Rete democratica” cesserebbe d’esser un mito, diventando realtà. Meritandosi anche un “doodle”.

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