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Economia / Intervista

Dipesh Chakrabarty. Una nuova lettura dell’antropocene

Lo storico indiano Dipesh Chakrabarty è professore presso l'Università di Chicago. Si è imposto come una delle figure di maggior rilievo della Postcolonial Theory col suo "Provincializzare l’Europa" (edito in Italia da Meltemi)

Per comprendere le cause della crisi climatica, lo storico suggerisce un approccio che non sia centrato sull’uomo ma sulla “storia profonda della Terra” e della specie umana

Tratto da Altreconomia 247 — Aprile 2022

Lo storico indiano Dipesh Chakrabarty, celebre per i suoi studi post-coloniali, da più di dieci anni focalizza ormai la sua analisi sulla crisi climatica, alla ricerca di una chiave di lettura sull’antropocene, l’era geologica che secondo diversi scienziati sarebbe iniziata a causa dell’impatto dell’essere umano, ormai in grado di cambiare gli equilibri planetari. “Clima storia e capitale” (Edizioni nottetempo, novembre 2021) contiene due saggi che costituiscono tra i contributi più originali al dibattito, in cui lo storico indaga le conseguenze rivoluzionarie dell’antropocene sulla storia umana. 

Il più importante esito di questa nuova era geologica, sostiene Chakrabarty, è il crollo della distinzione tra storia umana e storia naturale: oggi il tempo evoluzionistico delle specie e geologico della Terra prosegue allo stesso ritmo di quello delle società umane. Da qui la necessità di Chakrabarty di rimettere il Pianeta al centro dello studio dello storico, tentando da un lato di superare l’antropocentrismo che lo ha sempre caratterizzato, e dall’altro adottando una visione più ampia, che comprenda nell’analisi le scienze naturali. Provando ad applicare l’approccio post-coloniale e marxista alla crisi climatica, Chakrabarty non trova una chiave di lettura soddisfacente e giunge a una conclusione importante: la critica al capitalismo, seppur necessaria, è insufficiente per comprendere a pieno l’epoca degli sconvolgimenti ambientali perché costringe l’interpretazione storiografica a un approccio ancora una volta centrato solo sull’uomo e non sulla “storia profonda della Terra” e della specie umana. 

Riflessioni delicate e spesso contestate, che hanno tuttavia aperto un dibattito fertile in tutto il mondo, di cui il pubblico italiano era finora rimasto privo. Per questo i curatori di “Clima, storia e capitale”, Matteo De Giuli e Niccolò Porcelluzzi, hanno proposto i due saggi “Il clima della storia: quattro tesi” e “Clima e capitale: storie congiunte”, risalenti al 2009 e al 2014 e oggetto di riflessioni fondamentali.

Professor Chakrabarty, che cosa è successo con l’avvento dell’antropocene?
DC L’essere umano è diventato una forza geologica, in quanto è in grado di modificare l’andamento del clima, seppure senza volerlo: ecco ciò che definisce l’antropocene. La prima conseguenza radicale per gli storici è il crollo della distinzione umanistica tra storia naturale e storia umana. La crisi climatica ha riallineato il ritmo della storia profonda della Terra a quello delle società umane, costringendoci a pensare continuamente su scale temporali differenti. Questo ci permette anche di tenere bene a mente che ciò che il riscaldamento globale mette a repentaglio non è il Pianeta in quanto tale ma le condizioni biologiche e geologiche su cui si fonda la sopravvivenza della vita umana sulla Terra.

Perché lei sostiene che l’antropocene metta in crisi le storie della modernità e della globalizzazione?
DC L’antropocene è l’epoca della grande accelerazione, pensiamo ai consumi, ai trasporti, alle tecnologie, all’industrializzazione. Ma è anche un periodo storico (e geologico) caratterizzato dalla rivendicazione di libertà: dalla decolonizzazione, all’emancipazione delle donne, alla democratizzazione di varie società, tutte queste conquiste si sono basate sull’idea dell’affrancamento dai limiti della natura: senza un utilizzo sempre maggiore di combustibili fossili non avrebbero potuto essere ottenute. Lo sconvolgimento ambientale è il prezzo che è stato pagato per il benessere dei Paesi ricchi ed è anche la stessa moneta che continua a essere spesa nelle richieste di giustizia dei Paesi poveri che vogliono energia abbondante e a basso costo.

“È innegabile che il capitalismo ci abbia condotto al riscaldamento globale, ma è una lettura riduttiva. La critica al capitale, per quanto necessaria, ha un approccio ‘globale’, centrato sull’essere umano” 

In “Clima e Capitale: storie congiunte”, lei parla della distinzione tra globale e planetario. Che cosa intende?
DC Il globale è ciò che il lavoro umano, il capitale e l’opera della tecnologia hanno creato negli ultimi secoli. È il mondo per come lo abbiamo creato noi umani, centrato su noi stessi. La scienza, che paradossalmente nasce dalla prospettiva del globale, invece ci restituisce un’altra immagine della Terra, che io chiamo “planetaria”, quella degli oggetti astronomici e geologici, un sistema complesso di relazioni che coinvolge materia vivente e non vivente, che condiziona la nostra esistenza ma che tuttavia resta indifferente ad essa. Noi dipendiamo dal planetario, ma non è vero il contrario. Ora che il nostro tempo storico si è allineato a quello geologico, le scienze umane non possono più concentrarsi sul globale, ma devono continuamente confrontarsi con le scienze naturali.

Per questo sostiene che la critica al capitalismo sia riduttiva nell’interpretazione della crisi climatica?
DC Esattamente. È innegabile che il capitalismo ci abbia condotto a uno sfruttamento sfrenato delle risorse naturali e quindi al riscaldamento globale, ma si tratta di una lettura riduttiva, perché porta a ragionare in termini temporali troppo ristretti, facendo riferimento esclusivamente alla storia della società umana, per un fenomeno che riguarda il “planetario”. Dovremmo piuttosto tentare di adottare una visione di specie, che ragioni sul posto dell’umanità nella storia profonda della Terra. La critica al capitale, per quanto necessaria, ha un approccio “globale”, centrato sull’essere umano. Come concludo anche l’ultimo paper presentato in questo libro, “la constatazione che gli umani -tutti gli umani, ricchi o poveri che siano- sono gli ultimi arrivati nella vita del Pianeta e sono in una condizione più simile a quella di ospiti temporanei che di padroni esclusivi deve essere parte integrante della prospettiva a partire dalla quale noi perseguiamo la nostra fin troppo umana, anche se legittima, ricerca della giustizia negli ambiti che riguardano l’ubiquo impatto del cambiamento climatico antropogenico. 

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