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Opinioni

Diciannove anni fa l’assassinio di don Peppe Diana

Dall’aeroporto di Napoli puntiamo a Nord, verso il mare. Daniele e Francesca mi descrivono i luoghi che attraversiamo. Entriamo nella provincia di Caserta, sono le “terre dei fuochi”. Ovvero le terre della questione “munnezza”, dei roghi di rifiuti che ardono di notte. Sono terre di camorra.

Tratto da Altreconomia 147 — Marzo 2013

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha votato a febbraio una relazione sulla Campania di oltre 800 pagine. Nelle conclusioni si legge: “È evidente che il sistema risulta essere stato riprogrammato per far funzionare una macchina capace senz’altro di produrre profitti, ma destinata a non risolvere i problemi, dal momento che il raggiungimento dello scopo costituirebbe motivo per far cessare ogni possibile spunto di guadagno. Quanto l’inquinamento si sia trasferito al terreno, quanto dal terreno ai prodotti alimentari, quanto dai prodotti alimentari all’uomo non è dato sapere con esattezza. Si tratta di danni incalcolabili, che graveranno sulle generazioni future. Il danno ambientale che si è consumato è destinato, purtroppo, a produrre i suoi effetti in forma amplificata e progressiva nei prossimi anni con un picco che si raggiungerà fra una cinquantina d’anni”.

Sui cartelli stradali, Casal di Principe, Villa Literno, Castel Volturno, Cancello Arnone. Sono terre di camorra, certo. Ma sono anche le terre di don Peppe Diana. Non aveva ancora 36 anni, don Peppe, quando venne ucciso a Casal di Principe, il 19 marzo di 19 anni fa. Lì era nato e lì faceva il prete. Se avesse fatto il prete come tutti gli altri, dissero sulla sua tomba, non sarebbe morto. Invece lui scelse diversamente. In un documento del 1991, “Per amore del mio popolo non tacerò”, scriveva: “La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti di sostanze stupefacenti il cui uso produce schiere di giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato”.

Daniele è di Napoli, ma con Francesca, sua moglie -che è di lì- vive a Mondragone. Mondragone ha 27mila abitanti. Alle strade sconnesse e piene di buche, fanno da controcanto ville spropositate, circondate da alte mura di cinta. Don Lorenzo Langella guida la parrocchia di San Nicola dal 2001. È anche il referente di Libera. Ha 45, è gioviale, ospitale, determinato. In una comunità “in cui le madri insegnano ai figli a farsi i fatti loro”, don Lorenzo predica con forza legalità, giustizia, solidarietà.
Parla soprattutto ai ragazzi, don Lorenzo. La camorra ha distrutto l’economia locale, spiega, e ammalato le persone. “Ma se crediamo nel legame con la terra, dobbiamo liberarla dall’illegalità”.
Scoprire il gusto di una “meravigliosa normalità”, dice.
Con Lorenzo, Daniele e Francesca visitiamo l’imponente zuccherificio alle porte della cittadina, sequestrato alla camorra, che a breve verrà trasformato in centro civico, nonostante gravi episodi di vandalismo. Andiamo a Castel Volturno, a visitare il caseificio della cooperativa “Le Terre di don Peppe Diana-Libera Terra” che produce mozzarella di bufala. All’ingresso il cartello: “Bene confiscato: qui la camorra ha perso!”.
Poi a Casal di Principe, al ristorante-pizzeria “NCO-Nuova Cucina Organizzata”, ricavato anch’esso in uno stabile sequestrato. Infine torniamo a Mondragone, dove l’associazione dei genitori portatori di handicap ha aperto una bottega del commercio equo -“La bottega di Rachele”- dove lavorano i loro figli (grazie anche all’aiuto volontario di Daniele) in un progetto di inserimento sociale.

Abbiamo molto da imparare dal coraggio di questi uomini e donne del Sud. —

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