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Altre Economie / Reportage

Detroit rinasce così: orti urbani, fab lab e una nuova cultura del lavoro

Murale di protesta contro i pignoramenti di case al numero 839 Manistique st, davanti alla fattoria urbana Freedom Growers. Nel 2015 oltre 60mila case sono state pignorate perché i proprietari non avevano pagato la tassa di proprietà - © Jason Nardi

Ad aprile 2016 la capitale del Michigan, storica sede della Ford, ha ospitato il primo Forum nordamericano dell’economia sociale solidale. È stata l’occasione per conoscere le iniziative comunitarie che ne fanno un laboratorio del futuro 

Tratto da Altreconomia 183 — Giugno 2016

Le superstrade a 6 corsie che circondano e attraversano la città una volta dovevano essere molto trafficate: oggi sono per lo più vuote. Detroit, Michigan, storica sede della “triplice” automobilistica (Ford, GM e Chrysler), è la città che meglio rappresenta la profonda ferita che ha colpito il Sogno americano. Qui è forte l’evidenza fisica dell’abbandono e della devastazione: interi palazzi vuoti, case bruciate, strade inagibili in buona parte delle periferie e del centro, edifici storici chiusi e pericolanti. Nel 2013, Detroit ha presentato istanza di bancarotta, con un debito stimato di 7 miliardi di dollari. Da povertà, disperazione, inquinamento e marginalizzazione, però, sono emersi negli anni gruppi di cittadini attivisti (“grassroots”), dando vita a progetti e movimenti che stanno rivitalizzando la comunità. Per conoscerlo, Rich Feldman, che dopo aver lavorato alle catena di montaggio dell’industria automobilistica per 30 anni, facendo il sindacalista, è instancabile leader del movimento di giustizia sociale, organizza un tour a bordo di uno scuolabus giallo degli anni Sessanta, “from Growing our economy to growing our souls” (dal far crescere la nostra economia al coltivare le nostre anime). Si attraversa l’“Hope District”: il quartiere della speranza ospita la fabbrica artigianale di patatine “Detroit friends potato chips”, che ha dato lavoro a molti giovani. Qui negli anni Ottanta si avviò la diffusione del crack, ma la comunità seppe reagire con le marce contro le “crack houses” e l’istituzione di Zone di Pace (per arrivare a risolvere i conflitti senza ricorrere alla polizia, considerata un “esercito d’occupazione”), dalla Detroit Summer e la Boggs School for Manual Arts (che prende il nome da James e Grace Lee Boggs, anime storiche del movimento americano per la giustizia sociale), forme alternative di educazione che hanno cresciuto generazioni di leader di comunità. Ed ha funzionato.

Il tour finisce nel cuore della East Side di Detroit, nei due isolati occupati dall’Hidleberg project: l’artista Tyree Guyton ha recuperato oggetti di uso quotidiano per creare un’area piena di colore, simbolismo e dimostrare il potere della creatività per trasformare la vita. Marciapiedi, alberi ed edifici raccontano in maniera estremamente vivace gli effetti della globalizzazione: ci sono le barche dei profughi sul prato, 10mila scarpe a rappresentare i cittadini che hanno perso la casa, un Humvee (il SUV corazzato) installato nel 2010 durante l’US Social Forum a simboleggiare il militarismo. Dentro ci è cresciuto un albero.

A Detroit tra l’8 e il 10 aprile si è tenuto il primo Forum nordamericano dell’economia sociale e solidale: attivisti statunitensi e canadesi hanno discusso su come far crescere il movimento diffuso ma invisibile per un’altra economia, cominciando dal “decolonizzare la nostra economia solidale” da modelli e pratiche che fanno parte dell’economia dominante: dal superamento della separazione tra produzione e consumo, di come si finanziano le attività e del cambiamento di senso di parole come “ricchezza”, “benessere”, “condivisione”, “sostenibilità”.
Il luogo che ha ospitato il Forum è il Samaritan Center: un ex ospedale pubblico abbandonato, ristrutturato da una fondazione religiosa e trasformato in un centro polivalente, dove si trovano 30 organizzazioni tra associazioni, micro-imprese, cliniche, un fab-lab e una scuola. Il Forum è stato organizzato da RIPESS-Nord America (che include reti come il U.S. Solidarity Economy Network , il Canadian Community Economic Development Network e il Chantier de l’économie Sociale del Quebec). La plenaria si è svolta in una grande palestra, e ad aprirla è stata Tawana “Honecomby” Petty, del Boggs Center to Nurture Community Leadership: “In un’epoca di dualità, dove una città è destinata alla bancarotta per alcuni, eppure è ancora fiorente per altri, dove la tecnologia isola gli anziani mentre abilita i giovani, dove il sistema alimentare affama il suo popolo di vero nutrimento e contribuisce alla sua obesità, e dove la giustizia penale e i sistemi educativi abusano dei cittadini con il pretesto della sicurezza, è imperativo per noi re-immaginare il sistema nella sua interezza, e identificare e riconoscere i ruoli e il contributo che ognuno di noi può dare”.
Un altro dei “visionari” (così definiti nel programma) ha preso la parola dicendo: “Stiamo costruendo l’infrastruttura del futuro, ma dobbiamo fare attenzione. La sfida è quella di diffondere l’economia solidale al di là della classe media, prevalentemente bianca, perché risponda anche ai bisogni di chi è economicamente escluso. E abbiamo bisogno dei media per raccontarne la storia, preparandoci per quando sarà mainstream…”. A parlare è Gar Alperovitz, economista politico, fondatore dell’organizzazione Democracy Collaborative/Next System Project.

Chi ha chiaro un piano e una visione del futuro a lungo termine è senz’altro Blair Evans, direttore e mente dell’Incite focus, il primo “fab lab” di Detroit. Situato all’interno del Samaritan Center, questo laboratorio di “makers” è ben più di una “falegnameria hi-tech”. Ingegnere elettronico, Evans è  insegnante di Fabbricazione digitale (presso il Massachusetts Institute of Technology) e istruttore certificato di permacultura, e ha ideato vari modelli d’impresa sostenibile per la produzione su base comunitaria, con partecipazioni miste pubblico-privato-no profit. Il piano di Evans e dei suoi collaboratori prevede la formazione continua di giovani e disoccupati al lavoro del futuro, la fabbricazione a livello locale e micro-industriale (con stampanti 3D e tecnologie simili, auto-riproducibili e “open”) di tutto quello di cui possiamo avere bisogno, con risorse e materiali il più possibili reperiti a “km0”. Le aree di lavoro sono principalmente tre: l’ambiente naturale (attraverso forme di bio-mimesi, agroecologia e tecnologie appropriate), l’ambiente costruito (con la fabbricazione digitale) e l’ambiente invisibile (ovvero l’organizzazione delle strutture sociali, economiche e politiche di una comunità).  La sperimentazione prevede, ad esempio, la costruzione di case con materiali prodotti in Fab Lab, autosufficienti per gran parte delle necessità (energia elettrica, riscaldamento, acqua e gestione residui, orticoltura…) e in rete. Per il 2017 è previsto un primo Fab-co-working center di quartiere; per il 2020 un Fab Village; per il 2030 un Fab District e infine, per il 2054, la trasformazione di Detroit in Fab City…

In molti, intanto, credono che la rivoluzione passi per la capacità di produrre il proprio cibo. “We cannot free ourselves until we feed ourselves” (non ci possiamo liberare fintanto che non siamo capaci di nutrirci autonomamente) è lo slogan coniato da Gerald Hairston, fondatore dei Gardening Angels (gli angeli degli orti), un movimento intergenerazionale e interculturale che ha “piantato i semi della speranza”, coivolgendo centinaia di individui e gruppi di vicinato a crearsi il proprio orto sociale: orti dei ragazzi, orti di scuola, orti d’ospedale, orti degli anziani, orti del benessere, orti di parrocchia. Durante il tour della città si visita “Feedom-Freedom Growers” (nutrire i coltivatori di libertà), un progetto che ha come scopo quello di combattere l’obesità di molti ragazzi facendogli coltivare il proprio cibo, oltre ad organizzare mercatini della salute e feste di quartiere. Gli orti familiari sono migliaia, e seicento quelli comunitari: l’agricoltura urbana sta cambiando il volto della città e coinvolge giovani da tutti gli Stati Uniti. Naim Edwards è uno di questi. Giovane eco-biologo afroamericano, dalla Pennsylvania si è trasferito a Detroit da un anno. Mi ospita a dormire presso la sede della sua associazione, Voices for Earth Justice, che è anche la sua casa. Prima ci ha accompagnato per quartieri semi-abbandonati, dove spuntano orti e serre. Quello che gestisce, con tecniche agroecologiche, è condiviso.


“New work, new culture”
è invece un movimento nato da una “conversazione” di anni tra alcuni degli storici attivisti di Detroit, come Grace Lee Boogs, Frithjof Bergmann, Rick Feldman e Frank Joyce. Bergmann, in particolare, ne è l’anima filosofica (ex professore di filosofia dell’Università del Michigan): un simpatico signore su una sedia a rotelle che di sè dice di esser stato “contadino per tre periodi della mia vita” e quindi sa “bene cosa significhi vivere sulla terra e della terra”. Nel seminario del Forum che ha introdotto, ha spiegato che “stiamo vivendo un cambiamento epocale: l’idea che abbiamo oggi del lavoro è esistita solo negli ultimi duecento anni, e costringe gli individui a fare quello che ‘devono’ fare, non quello che ‘vogliono’.
A Detroit abbiamo un’opportunità eccezionale per promuovere una nuova cultura del lavoro che rimetta al centro la relazione tra le persone. Dobbiamo immaginare di lavorare per una comunità e così facendo, creare comunità”. L’icona di questo movimento è Grace Lee Boggs: l’ho conosciuta nel 2010, aveva 95 anni. Cino-americana, instancabile ispiratrice e protagonista di mille campagne, è vissuta -sempre attiva- fino all’anno scorso.

Al Forum l’hanno celebrata, a partire dalle magliette con il suo slogan: “(r)Evolution”. Nel suo ultimo libro, postumo, scrive: “La prossima Rivoluzione americana non riguarda […] rendere possibile a più persone di realizzare il sogno americano di mobilità verso l’alto. Si tratta di creare un nuovo sogno americano che abbia come obiettivo un’umanità più alta, invece di uno standard di vita più alto ma dipendente dall’Impero. Si tratta di praticare un nuovo, più attivo e partecipatorio concetto di cittadinanza”.


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