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Depressione fiscale

Il livello di tassazione del reddito d’impresa è in caduta libera da dieci anni, in tutto il mondo. Tra strategie di “ottimizzazione” e “transfer pricing”, così si riducono i fondi a disposizione degli Stati per finanziare la spesa pubblica In…

Tratto da Altreconomia 102 — Febbraio 2009

Il livello di tassazione del reddito d’impresa è in caduta libera da dieci anni, in tutto il mondo. Tra strategie di “ottimizzazione” e “transfer pricing”, così si riducono i fondi a disposizione degli Stati per finanziare la spesa pubblica

In fuga dalle tasse. A dispetto di lamentele, crisi, tagli del personale e invocazione di aiuti, un elemento non viene mai messo in luce dalle imprese multinazionali di tutto il mondo nell’illustrare i propri bilanci.
Si tratta del livello di tassazione, ovvero la percentuale media della ricchezza prodotta da una società che finisce nelle tasche dello Stato in cui questa opera. Che poi dovrebbe utilizzare quei soldi per fornire servizi ai propri cittadini. Una sorta di “restituzione di ricchezza” che, negli ultimi anni, si è ridotta. In tutto il mondo e in Italia, dove la tassazione complessiva per le aziende equivale a circa il 31,4% della ricchezza prodotta. La percentuale media è la somma della tassa chiamata Ires -imposta sul reddito delle società, che oggi è al 27,5%- cui va aggiunto il 3,9% dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap). Rispetto allo scorso anno, le aziende italiane pagano meno tasse: nel 2007 l’Ires era al 33% e l’Irap al 4,25%.
Un modo di sostenere l’impresa, si dirà. Può essere, ma l’Italia è solo in linea con quanto accade nel mondo ormai da dieci anni: le società, specie multinazionali, pagano sempre meno tasse. Il dato arriva dalla ricerca realizzata anche quest’anno (siamo ormai al sedicesimo) da Kpmg,  società multinazionale specializzata nella revisione di bilancio e nella consulenza alle imprese in materia fiscale, di outsourcing contabile e legale (kpmg.com). Kpmg monitora il livello di tassazione in 106 Paesi, per “aiutare” le società clienti a ottimizzare il proprio carico fiscale. Dalla ricerca emerge che nel 2008 il livello di tassazione medio mondiale è stato del 25,9%, mentre solo un anno prima era del 26,8%. Nei grafici sottostanti è possibile osservare il trend degli ultimi 10 anni: nel 1999 la percentuale era del 31,4%. L’Europa segue e anticipa questa tendenza: nel 1999 la tassazione media era del 34,8%: oggi è precipitata al 23,2%. Nessun Paese del mondo, sottolinea Kpmg, ha aumentato il livello di tassazione rispetto al 2007; solo America Latina e l’area Asia/Pacifico sono sopra la media, con rispettivamente il 26,6% e il 28,4%. “In questo scenario -scrivono i ricercatori di Kpmg- diventano sempre più rilevanti per i governi gli introiti da tassazione indiretta”. La tassazione indiretta è rimasta sostanzialmente invariata, anche se è aumentato il numero di Paesi che adottano imposte come la nostra I.v.a.: oggi la media planetaria è attorno al 15,7%, contro il 15,6% del 2004.
Nei sui calcoli, Kpmg non tiene però in considerazione il continuo (e in aumento) ricorso da parte delle multinazionali ai paradisi fiscali (vedi Ae n. 96). Sappiamo che i capitali depositati dalle persone fisiche in un paradiso fiscale sono stimati attorno agli 11.500 miliardi di dollari. Il gettito fiscale mancato si aggira attorno ai 255 miliardi di dollari. Non è possibile fornire una cifra analoga per le persone giuridiche, poiché spesso non vi è obbligo di rendicontazione. Sappiamo però che se nel 1990 le multinazionali erano 37mila, con 175mila filiali nel mondo, oggi esse sono non meno di 64mila con 875mila filiali. Molte di queste sono registrate in un paradiso fiscale: al momento del fallimento, la Enron aveva 692 compagnie registrate alle isole Cayman.
Tra gli elementi presi in considerazione dalla ricerca di Kpmg, a uno viene dato particolare rilievo. Si tratta del cosiddetto tranfer pricing, meccanismo che permette alle multinazionali di trasferire denaro da un Paese all’altro importando ed esportando prodotti a prezzi differenti. Secondo l’Ocse, questo meccanismo fa perdere ai Paesi del Sud del mondo circa 160 miliardi di dollari l’anno di entrate fiscali, e il 60% del commercio mondiale avviene all’interno delle stesse imprese. “Assistiamo -avverte Kpmg- a un sempre maggior numero di Stati che introducono regole per controllare i prezzi ai quali le compagnie si scambiano prodotti”. La democrazia è nemica delle imprese?

La Governance intrecciata di banche e assicurazioni
Legami pericolosi in Borsa
“Un azionariato, anche per le società quotate, spesso concentrato in capo a pochi soggetti e legato da patti, nonché una gestione caratterizzata da incarichi personali doppi o addirittura multipli in società concorrenti, e da intrecci del tutto peculiari rispetto al resto d’Europa”.
Ecco il settore finanziario italiano, secondo l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. A gennaio, l’Antitrust ha reso note le conclusioni di un’indagine conoscitiva su banche, assicurazioni e società di gestione del risparmio (www.agcm.it). Quel che emerge dal rapporto, 219 pagine colpevolmente sottovalutate e mal riportate dai media italiani, è un comparto economico nel quale al posto di trasparenza e concorrenza regnano interessi di parte, amicizie, lobby e potentati. L’indagine rivela ad esempio, indicando i nomi delle società prese in considerazione, che l’80% dei gruppi esaminati ha nei propri organismi soggetti con incarichi in società concorrenti. Un’anomalia, spiega l’Antitrust, che non ha eguali in Europa: il fenomeno è del tutto inesistente per le imprese quotate in Spagna e in Olanda, riguarda il 26% delle quotate a Parigi, il 44% di quelle della piazza londinese e il 47% delle società della Borsa tedesca. Il grado di concentrazione dell’azionariato, che di solito fa capo a un nucleo circoscritto di soci, è molto forte nelle società quotate. “Tale nucleo -si legge- è capace anche con l’uso di deleghe di ‘guidare’ la partecipazione dei soci in alcuni momenti essenziali della vita sociale, ad esempio l’approvazione del bilancio e la nomina del management”. Il tema dei legami tra concorrenti è stato analizzato anche dal punto di vista giuridico.
Il risultato: non ci sono norme adeguate a combattere il fenomeno; quelle che esistono vengono facilmente raggirate.
“Il divieto di concorrenza di cui all’articolo 2390 del codice civile -si legge nel rapporto- è agevolmente derogato da un’autorizzazione preventiva dell’assemblea. Anche la disciplina vigente in materia di conflitti di interesse e amministratori indipendenti non appare idonea a risolvere i problemi concorrenziali derivanti dai legami fra concorrenti. Si tratta di un quadro normativo che non è, a oggi, compensato da una autoregolamentazione e da una prassi statutaria soddisfacente”.

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