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La logica del potere contro la cultura della democrazia

L’individualismo ha superato la solidarietà. Conoscere l’esperienza del ‘68 è un atto di memoria che motiva a trovare un’azione sociale e politica adeguata al nostro tempo. C’è molto più futuro in quel movimento che negli slogan del sovranismo tossico. Le “idee eretiche” di Roberto Mancini

Tratto da Altreconomia 211 — Gennaio 2019

Fare memoria. È un’azione che raramente i movimenti alternativi svolgono. E i popoli ancora meno. Tipica è la solita accusa contro la “sinistra” (identificata con il Pd, che non è mai stato un partito di sinistra) di essere responsabile dei mali dell’Italia. Non una parola sulle colpe della destra, che in qualsiasi variante (dal fascismo storico a Berlusconi, da Salvini a Di Maio) è specializzata in disastri. Il recupero della memoria che serve per sprigionare la creatività culturale e politica deve passare anche per una lettura del Sessantotto. Si tratta di un anno spesso evocato ma poco conosciuto.

In quell’anno culminò un movimento mondiale di contestazione e di ricerca, orientato verso una forma di esistenza personale e di convivenza sociale inedite. La novità stava nell’idea di una società non più fondata sul potere e sulle sue gerarchie, ma sulla libertà delle persone e sulla solidarietà. Le radici principali del ‘68 sono: la svolta di metà Novecento, quando dal 1948 in poi si riconosce che la dignità umana e non il potere deve fondare la vita collettiva; i processi di liberazione dal colonialismo, a partire dall’indipendenza dell’India di Gandhi sino alla decolonizzazione in Africa e in Indocina; il risveglio delle nuove generazioni espresso dalla beat generation e soprattutto nella rivolta di Berkeley contro la guerra nel Vietnam nel 1964; il Concilio Vaticano II, indetto nel 1959 e concluso nel 1965. Tutte queste primavere convergevano nella nascita di una controcultura e nel sogno di una società liberata dall’autoritarismo, che fosse adeguata al desiderio delle persone.

I fenomeni principali avvenuti nel ‘68, ma in effetti disseminati dai primi anni Sessanta sino al 1978, furono tutti espressione di una maturazione della coscienza collettiva, soprattutto delle nuove generazioni: dalle mobilitazioni del maggio in Francia a quelle in Germania, dalla rivolta studentesca in Polonia a quella in Messico, sino al risveglio della contestazione di studenti e operai in Italia. Fu particolarmente importante, in quell’anno,  il tentativo di realizzare un socialismo democratico in Cecoslovacchia, poi represso dall’intervento delle truppe del Patto di Varsavia.

Il significato del movimento mondiale nel ’68 è quello della disobbedienza al potere come principio generale di organizzazioni dei rapporti interumani. Ciò liberò energie creative orientate al mutamento delle forme di vita e alla democratizzazione delle istituzioni. Per questo i frutti del ’68 non furono il permissivismo e il terrorismo, furono lo Statuto dei lavoratori, la riforma della scuola e quella della sanità, la riforma psichiatrica di Franco Basaglia e lo sviluppo di forme di democrazia decentrata, partecipata, non sessista. Certo, il ’68 ebbe anche limiti pensanti, come l’incapacità di generare un’altra economia, la proliferazione di ideologie identitarie e il mancato approdo a una ridefinizione della vita delle istituzioni in senso più concretamente democratico. Eppure quel processo di risveglio delle coscienze oggi ci aiuta a cogliere l’alternativa tra logica del potere e cultura della democrazia, tra individualismo e solidarietà, tra il conformismo e la progettualità che apre strade nuove alla società. Conoscere quell’esperienza di rinnovamento è un atto di memoria che ci motiva a trovare un’azione sociale e politica adeguata al nostro tempo. C’è più futuro nel movimento del ’68 che negli slogan ideologici e tossici del neoliberismo o del sovranismo. In quel movimento c’era soprattutto la ricchezza del respiro universale per cui si sapeva che la contestazione, la sperimentazione di relazioni inedite e la ricerca di una politica che non sia lotta per il potere riguardano non “noi” o “voi”, ma tutta l’umanità. Non c’entra la nostalgia. È una questione di coraggio. Il coraggio di affermare agendo che c’è un altro modo possibile e doveroso di fare ogni cosa. Questo modo deriva non dalla pulsione tossica del risentimento, bensì dalla passione per la vita comune.

Roberto Mancini insegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata. Nel 2016 ha pubblicato “La rivolta delle risorse umane. Appunti di viaggio verso un’altra società” (Pazzini editore)

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