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Degenerazione climatica

Ecco come gli strumenti per combattere il riscaldamento globale si sono trasformati in pratiche speculative. Che non risolvono il problema e peseranno sulle tasche di tutti noi Un’occhiata alle ultime quotazioni, collegato via internet alla Borsa di Chicago o quella…

Tratto da Altreconomia 102 — Febbraio 2009

Ecco come gli strumenti per combattere il riscaldamento globale si sono trasformati in pratiche speculative. Che non risolvono il problema e peseranno sulle tasche di tutti noi

Un’occhiata alle ultime quotazioni, collegato via internet alla Borsa di Chicago o quella di Amsterdam, e una al “portafoglio”. Poi un click per vendere o comprare. Questo trader tratta titoli che non appartengono a società quotate. Si misurano in tonnellate di gas serra e si chiamano “crediti di emissione”; una nuova commodity, come grano o caffè: chi la acquista o cede, sui listini del Chicago Climate Exchange o dell’European Climate Exchange, è un carbon trader.
La CO2 è un bene impalpabile, ma una tonnellata è scambiata a più di 11 euro. E questo nuovo mercato, definito carbon market, è in rapida espansione: nel 2008, sono passati di mano ben 4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica per un controvalore di 118 miliardi di dollari, con una crescita dell’84% rispetto al 2007.
È la “febbre di Kyoto”: il carbon trading, infatti, è uno dei meccanismi previsti dal protocollo Onu, firmato nella città giapponese alla fine del 1997 e in vigore dal febbraio del 2005, per ridurre le emissioni globali di gas serra. Gli ultimi dati diffusi dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), però, parlano chiaro: tra il 2000 e il 2006 le emissioni dei Paesi ricchi sono aumentate del 2,3%. E dimostrano che “il fine” di Kyoto non è stato mai preso troppo sul serio, mentre i mezzi indicati per raggiungerlo (oltre al carbon trading ci sono i progetti che generano una riduzione delle emissioni, definiti Clean Development Mechanism e Joint Implementation, di cui parliamo nell’articolo a pagina 35) hanno conquistato il mondo dell’industria e quello della finanza.

Guardiamo all’Italia. Da un lato, dal 2001 si sono succeduti almeno tre governi (i due di centro-destra, uno di centro-sinistra) che non hanno adottato una strategia complessiva per la riduzione delle emissioni, una “politica nazionale” che abbracci e obblighi l’industria, il settore dei trasporti o l’edilizia residenziale a diventare più efficienti; dall’altro, banche e privati si stanno specializzando nella compravendita di diritti di emissione ma anche di prodotti finanziari, derivati legati ai gas serra.
Insomma, per i soliti noti il carbon trading è business as usual. Unicredit, ad esempio, che ha creato un Carbon Solutions Team nell’ambito della divisione Markets & Investments Banking.
Nel 2007 ha movimentato 50 milioni di tonnellate di CO2, per un valore complessivo di 800 milioni di euro. Intesa-Sanpaolo, invece, ha dato vita a Gica, Green Initiative Carbon Assets, una società che ha sede a Lugano, in Svizzera. Gli altri soci fondatori di Gica sono Sorgenia (Carlo De Benedetti, editore di Repubblica-l’Espresso), il gruppo siderurgico Lucchini, oggi in mano alla russa Severstal, e Iride, l’ex municipalizzata di Torino e Genova che si occupa di energia. La società è nata nel 2008, dotata di un capitale iniziale di 60 milioni di euro. Un gruzzolo di quasi 5 milioni di tonnellate di CO2, se comprasse crediti al prezzo di oggi.
Di fronte a uno Stato latitante e lontanissimo dagli obiettivi di Kyoto (entro il 2012, dobbiamo ridurre del 6,5% le nostre emissioni rispetto al 1990; al 2006, però, erano aumentate del 9,8%), i carbon trader italiani sono come pionieri che parlano un linguaggio da iniziati: per noi è difficile comprendere la differenza tra una Certified Emission Reductions (Cer) o una European Unit Allowances (Eua), le due unità di misura dei certificati; sono imprenditori previdenti: se e quando tutti capiremo “cosa sono” e “a cosa servono” Cer ed Eua sarà troppo tardi: quel giorno, Bruxelles e l’Onu avranno già chiesto conto al nostro Paese del ritardo nell’attuazione della roadmap disegnata dal Protocollo di Kyoto. Il “ritardo” ad oggi ci è costato 1,6 miliardi di euro: un “debito” virtuale, ma destinato a toccare i 6 miliardi di euro da qui al 2012, quando il Governo dovrà acquistare Eua o Cer da quei previdenti che li hanno accumulati, come Gica. Pagando per compensare il mancato impegno per la riduzione delle emissioni. 
La scena non cambia se sul palco salgono i settori industriali che emettono più CO2
(e più inquinanti), l’unico -nel nostro Paese- ad avere un obbligo preciso di riduzione, perché deciso a Bruxelles. 
In Italia si tratta di circa 700 impianti (su 11mila in tutta Europa), che rappresentano il 38% delle emissioni totali del Paese. Sono centrali termoelettriche, raffinerie di petrolio, cokerie, impianti per la produzione e trasformazione dei metalli ferrosi, l’industria dei prodotti minerali (cemento, calce, vetro, fibre di vetro, prodotti ceramici) e impianti per la fabbricazione di pasta per carta, carta e cartone.
Secondo il Piano nazionale di assegnazione dovranno tagliarle del 15% tra il 2008 e il 2012 (vedi tabella in alto). Il Piano è stato elaborato dal Governo nell’aprile del 2006 e si basa sulla direttiva europea numero 87 del 2003, quella che ha istituito l’Emission Trading Scheme, un mercato europeo delle emissioni che funziona così: Bruxelles mette a disposizione di ogni Paese, a titolo gratuito, un portafoglio di emissioni; ogni anno i governi nazionali decidono come allocare, impianto per impianto, azienda per azienda, questo bene. Ogni impianto, cioè, ha un magazzino di CO2 da gestire. Che diventa un nuovo asset a bilancio, da far fruttare: vendendo crediti per poi acquistarli nuovamente. L’importante è che alla fine dell’anno, in cassa ci siano certificati pari al volume delle emissioni registrate dall’impianto.
Insieme al carbon trading è nata così una nuova disciplina, che si chiama carbon managment. A Milano se ne occupa Eco-Way, una società nata nel 2003. Da un ufficio di via Anfossi, nel centro città, gestisce i magazzini virtuali di CO2 per un centinaio di impianti.
“Le imprese hanno una ‘merce’ a disposizione per 14 mesi prima di riconsegnare i certificati al ministero dell’Ambiente. Col trading possono ricevere un flusso di cassa per un bene altrimenti immobilizzato” spiega Guido Busato, che di Eco-Way è proprietario e presidente.
Per l’intermediazione della compravendita di una tonnellata di CO2 scambiata, Eco-Way guadagna 0,02 centesimi di euro.
Ma non fa solo trading: per i suoi clienti si occupa di “elaborare e suggerire una strategia generale di gestione del magazzino di emissioni, come legare i processi del carbon market a quelli industriali”.
La lotta ai cambiamenti climatici attraverso la riduzione delle emissioni si è ridotta a una questione di trade-off: è più economico migliorare l’efficienza dei propri impianti in Italia o investire all’estero in progetti di riduzioni delle emissioni, come i Cdm riconosciuti dall’Onu. “La materia è complessa -chiosa Busato- e le industrie italiane sono impreparate”.
Se anche il carbon trading fosse la manna in grado di limitare le emissioni, l’Italia sarebbe in ritardo.

Il controverso meccanismo dei Cdm
Tagli in casa d’altri
Solo Kyoto ha convinto l’Eni a ridurre il gas flaring in Nigeria, la pratica di bruciare a cielo aperto il gas naturale collegato all’estrazione del petrolio. Lo stop è arrivato in cambio di un bel gruzzoletto di crediti di emissione. Il protocollo di Kyoto, infatti, dà la possibilità ai Paesi con vincoli (come l’Italia) di considerare come tagli alle emissioni di gas serra anche progetti che le riducono nei Paesi in via di sviluppo che questi vincoli non hanno. Questi progetti vengono definiti Clean Development Mechanism (Cdm) e garantiscono a chi li realizza dei certificati di riduzione delle emissioni (denominati Cer). Nel caso dell’Eni, al progetto “Recovery of associated gas that would otherwise be flared”, approvato nel novembre del 2006 sono stati associati 1,5 milioni di tonnellate di Cer all’anno. Sul mercato, oggi, valgono oltre 15 milioni di euro.
“That would otherwise”, “che altrimenti”: questo lemma è al centro del dibattito che contrappone Nazioni Unite e società civile in merito all’efficacia dei meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto.
I progetti Cdm, in particolare, dovrebbero essere “addizionali”, cioè ridurre le emissioni di gas serra rispetto a quelle che si sarebbero verificate in assenza del progetto stesso. Numerosi studi mettono in discussione questo dato: secondo l’Oko Institute e il Wwf, l’addizionalità del 40% dei progetti approvati tra il 2004 e il 2007 è quantomeno dubbia. L’associazione americana International Rivers sostiene invece che circa tre quarti dei progetti registrati come Cdm erano già realizzati quando hanno ottenuto l’approvazione. Secondo David Victor, professore presso la Stanford University e autore di un’analisi sul tema (A Realistic Policy on International Carbon Offsets), molti progetti “sarebbero stati realizzati comunque, e sembra che tra uno e due terzi di tutti i progetti Cdm non realizzino tagli effettivi delle emissioni”. 
Così tra i temi al centro dell’agenda di Copenhagen, dove nel dicembre del 2009 si svolgerà la Conferenza delle parti del Protocollo di Kyoto, ci sono la maggiore trasparenza degli enti verificatori dei progetti (l’Onu ha appena sospeso le attività della norvegese Dnv, uno dei più grandi certificatori del mondo), la revisione del meccanismo di controllo del requisito dell’addizionalità e l’introduzione di un premio per i progetti che contribuiscono -davvero- alla promozione dello sviluppo sostenibile.
La bontà dei progetti Cdm è talmente compromessa che nel giugno 2008, per evitare il rischio di progetti “truffa” (approvati ma mai realizzati o irrealizzabili: circa due terzi dei progetti Cdm non generano il numero atteso di crediti), è nata addirittura un’agenzia di rating, Carbon Rating Agency, una società di consulenza britannica il cui vice-presidente è Nicolas Stern, l’ex capo economista della Banca mondiale e autore del rapporto Dall’entrata in vigore del protocollo di Kyoto sono stati approvati 1.341 progetti Cdm, per un totale di 249,76 milioni di Certified Emission Reduction (Cer), appetiti sul mercato. 68 progetti fanno riferimento ad Enel, il cui portafoglio di Cer è uno dei primi 10 a livello mondiale.
Le riforme sono necessarie, perché Kyoto e l’ambiente non restino solo il solito affare.

Cronologia di una lotta impari
Nel 1992, a Rio de Janeiro, nasce la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), con l’obiettivo di prevenire “l’interferenza dell’uomo sull’equilibrio climatico sul Pianeta”. Aderiscono 153 Paesi. Nel’ambito dell’Unfccc, nel 1997 viene adottato il Protocollo di Kyoto, con cui i Paesi industrializzati s’impegnano a ridurre le emissioni: entro il 2012, dovranno essere il 95% di quelle registrate nel 1990. Per raggiungerlo, possono far ricorso al carbon market e anche a meccanismi definiti flessibili, come i Clean Development Mechanism (progetti che generano emissioni “negative” nei Paesi del Sud del mondo) e Joint Implementation (lo stesso principio, ma rivolto alle economie in transizione, come quello dell’Est Europa). Nel 1999, la Banca mondiale dà vita a un Prototype Carbon Fund, per finanziare progetti Cdm nei Paesi del Sud. Negli anni, ne seguiranno altri: Bio Carbon Fund, Community Development Carbon Fund ma anche un Italia Carbon Fund (con un portafoglio di 155,6 millioni di euro, i cui sono partner il governo italiano e alcune Imprese tra cui Enel, Erg ed Italcementi).
La società civile è molto scettica sul ruolo di questi fondi per l’ambiente promossi dalla World Bank, che pure continua a finanziare cospicuamente il ricorso alle risorse fossili ad alte emissioni). Sempre nel 1999 nasce anche l’International Emissions Trading Association: anche Kyoto ha la sua lobby d’impresa.
Nel 2001 gli Stati Uniti d’America ritirano la propria adesione dal Protocollo. L’Unione europea, alla ricerca di una leadership nella lotta ai cambiamenti climatici dà vita a un Emissions Trading Scheme (www.ieta.org): il mercato europeo delle emissioni funziona dal gennaio del 2005.
Il 16 febbraio dello stesso anno entra in vigore il protocollo di Kyoto, dopo l’adesione della Russia.
Nel dicembre del 2009, i Paesi che fanno parte del Protocollo di Kyoto si ritroveranno a Copenhagen per discutere risultati e limiti della strategia attuale e (ri)programmare l’impegno contro i cambiamenti climatici fino al 2020. http://unfccc.int/

La prossima bolla
Fondi d’investimento e trader di energia sono quelli che più hanno guadagnato sul mercato europeo delle emissioni. Parola di Peter Atherton, analista per Citigroup Global Markets.  
Non è un caso, perciò, se Citigroup, Deutsche Bank, Morgan Stanley, Barclays Capital e Bnp Paribas hanno tutte un desk addetto alla compravendita di crediti di emissione. I fondi pubblici, privati e misti attivi sul carbon market, all’inizio del 2008, erano già un’ottantina, con un capitale di almeno 13 miliardi di dollari.
In quattro anni il valore del volume dei crediti di emissione scambiati sul mercato è decuplicato, ed è cresciuto il peso dei future: alcuni -come Larry Lohmann, ricercatore inglese di The Cornes House e autore, tra l’altro, del saggio Carbon Trading: Solution or Obstacle?- vedono dietro l’angolo “una nuova bolla speculativa, come quella legata al settore immobiliare o al petrolio. I derivati sui crediti di emissione -spiega Lohmann- sono artifici finanziari molto simili a quelli creati negli ultimi trent’anni, come i derivati”.

I ritardi italiani
Le quote assegnate all’Italia, divise per settori industriale rilevanti: dal 2008 al 2012, le emissioni dovranno calare del 14,1% fino a 177,38 milioni di tonnellate di CO2.
Il governo avrebbe dovuto ripartire le quote per ogni impianto entro il 28 febbraio 2008, ma la consegna è stata rimandata al mese di dicembre. Le industrie hanno saputo solo allora “quanto” avrebbero potuto emettere.

Due comunità si raccontano, unite da un filo rosso delle emissioni di CO2
“The Carbon Connection” è un documentario di 40 minuti che spiega come due comunità distanti migliaia di chilometri possano subire gli effetti negativi del mercato globale dei “crediti di emissione”. In Brasile, la prima comunità è rimasta senz’acqua, dopo che la multinazionale Plantar ha avviato monocolture di eucalipto nell’ambito di un progetto Clean Development Mechanism, che genera “crediti di emissione”;
la seconda, in Scozia, vive davanti alla maggiore raffineria di petrolio del Paese. È un impianto di proprietà di British Petroleum, che per fare un po’ di greenwashing investe in progetti che generano crediti di emissione nel Prototype Carbon Fund della Banca mondiale. “The Carbon Connection”, una produzione di Fenceline Films in partnership con il Transnation Institute e il Carbon Trade Watch, è on-line www.carbontradewatch.org

Per molti, non tutti
La geografia dei progetti Clean Development Mechanism illumina pochi Paesi del Sud del mondo. L’Africa, in particolare, è totalmente esclusa dagli investimenti legati ai “meccanismi per lo sviluppo pulito”. Dei 1.341 progetti registrati a fine gennaio, infatti, 387 sono in India (28,86%), 378 in Cina (28,19%), 149 (11,11%) in Brasile, 110 (8,2%) in Messico e solo 28 in tutto il continente africano.
Ad ogni progetto Cdm è associato un determinato volume di Cer (Certified Emission Reductions), che poi viene scambiato. In totale, sono 247milioni all’anno i Cer legati ai Cdm in corso. Il mercato Cer vale circa il 20% del carbon market, che resta dominato dallo scambio di European Union Allowance.

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