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Diritti / Opinioni

Così il “decreto sicurezza bis” stravolge finalità e utilizzo dei fondi della cooperazione

“Il provvedimento approvato dal Governo a metà giugno istituisce un fondo di ‘premialità’ per le politiche di rimpatrio con Paesi terzi secondo una logica antimigratoria. E anche il principio di non refoulement potrebbe essere aggirato. La cosa desta viva preoccupazione”. L’analisi di Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

C’è una generale sottovalutazione della pericolosità di un passaggio del “Decreto sicurezza bis” (DL 53/2019), entrato in vigore lo scorso 15 giugno. Non riguarda il contrasto ai soccorsi in mare ma lo stravolgimento delle finalità e dell’utilizzo dei fondi per la cooperazione, piegati a logiche antimigratorie. Si tratta dell’articolo 12 che istituisce un fondo di premialità per le politiche di rimpatrio con Paesi terzi. La cosa desta viva preoccupazione sotto diversi profili: dalla conformità delle disposizioni citate con il diritto interno italiano in materia di cooperazione internazionale allo sviluppo (in particolare con la legge 11 agosto 2014 n. 125 – Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo) alla coerenza delle politiche europee disciplinate dal Trattato sul funzionamento dell’Unione. Fino al rispetto degli obblighi fissati dalla Direttiva 115/2008/CE in materia di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi e del principio di non refoulement.

Andiamo per gradi e guardiamo alla conformità con gli obiettivi e le finalità della cooperazione internazionale allo sviluppo. Il citato art. 12 del “decreto sicurezza bis”, al comma 1 prevede la costituzione di un Fondo “destinato a finanziare interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione europea”.

Prescindendo in questa sede da qualsiasi valutazione di tipo politico in relazione all’utilizzo di strumenti di carattere premiale nei confronti dei Paesi terzi che collaborano attivamente al rimpatrio dei migranti, è necessario far rilevare come queste disposizioni si pongano in contrasto con quanto previsto dalla legge 125/2014 in materia di cooperazione allo sviluppo. Gli obiettivi e le finalità della normativa italiana in materia di cooperazione internazionale, infatti, sono rigorosamente definiti. Un contributo “alla promozione della pace e della giustizia” che “mira a promuovere relazioni solidali e paritarie tra i popoli fondate sui principi di interdipendenza e partenariato”. Sradicando la povertà, riducendo le diseguaglianze, migliorando le condizioni di vita e promuovendo uno sviluppo sostenibile. Dove la persona umana ha “centralità”. Il collegamento, in termini di finalità della norma, tra le politiche migratorie e la cooperazione, inoltre, è chiaramente inquadrato (Art. 2 comma 6 della 125/2014): “La politica di cooperazione italiana -si legge- promuovendo lo sviluppo locale, anche attraverso il ruolo delle comunità di immigrati e le loro relazioni con i Paesi di origine, contribuisce a politiche migratorie condivise con i Paesi partner, ispirate alla tutela dei diritti umani ed al rispetto delle norme europee e internazionali”.

Certamente la cooperazione allo sviluppo può essere attuata anche attraverso intese ed accordi bilaterali o multilaterali tra l’Italia e Paesi terzi ma in tal caso detti accordi debbono comunque devono sottostare ai criteri previsti dalla norma ovvero corrispondere “ ad una specifica richiesta da parte del Paese partner, in linea con i principi della piena appropriazione dei processi di sviluppo da parte dei Paesi partner e del coinvolgimento delle comunità locali” (art. 7 comma 2). La norma è tassativa anche in relazione a contributi finanziari destinati a Paesi terzi. È chiaro perciò che l’erogazione di contributi a Paesi terzi nell’ambito della cooperazione allo sviluppo non può in alcun modo prevedere interventi di tipo premiale conseguenti alla attiva collaborazione degli Stati nel rimpatri dei propri cittadini o in quella di cittadini di Paesi terzi in quanto Paese di transito. Il “decreto sicurezza bis” stravolge completamente le finalità e gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo e delinea un evidente contrasto normativo con la legge 125/2014.

Non solo. Il contrasto è palese anche rispetto alla politica dell’Unione europea nella stessa materia. “L’obiettivo principale della politica dell’Unione in questo settore è la riduzione e, a termine, l’eliminazione della povertà -stabilisce l’articolo 208 del Capo III del Trattato sul funzionamento dell’Ue-. L’Unione tiene conto degli obiettivi della cooperazione allo sviluppo nell’attuazione delle politiche che possono avere incidenze sui Paesi in via di sviluppo”.

Questo significa, alla luce del “decreto sicurezza bis”, che il Governo italiano potrebbe essere destinatario di finanziamenti in materia di cooperazione internazionale provenienti dall’Unione, ovvero derivanti da programmi quadro o da qualsivoglia altro accordo, che siano impropriamente utilizzati per finalità diverse e non compatibili con le finalità e gli obiettivi degli stessi programmi di cooperazione europea. Torniamo al dettato dell’articolo 12 e a quei previsti interventi “con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione Europea”.

L’utilizzo del termine “riammissione” (readmission? rendition?) appare connotato da una spiccata ambiguità, in contrasto con il principio generale di tassatività della norma di legge. Esso infatti si presta sia ad indicare, in senso ampio, l’adozione di provvedimenti di espulsione di cittadini di Paesi terzi, la cui adozione ed esecuzione è soggetta al rispetto della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, sia si presta ad indicare l’adozione di un provvedimento di respingimento alla frontiera di uno straniero intercettato appunto nell’atto di attraversare irregolarmente la frontiera dello Stato membro. Il termine si presta altresì ad una terza, ancora più ambigua ed incerta interpretazione, ovvero quella di una sorta di riammissione senza formalità, ovvero quale mero atto materiale posto in essere dalle forze di polizia, di un cittadino di un Paese terzo intercettato mentre sta attraversando la frontiera italiana in provenienza da un altro Paese.

L’utilizzo di accordi di riammissione tra l’Italia e Paesi terzi con procedure semplificate è prassi lungamente utilizzata dall’Italia, sia chiaro. Tuttavia il diritto dell’Unione prevede (art. 5 della Direttiva rimpatri), senza possibilità di deroga alcuna, che debba essere rispettato il principio di non refoulement, anche in relazione al rischio non solo di refoulement diretto verso un Paese nel quale lo straniero potrebbe essere esposto a persecuzioni, o a torture o a trattamenti disumani e degradanti, ma anche in relazione al refoulement indiretto o a catena, ovvero al rinvio dello straniero verso un Paese di transito che a sua volta rinvierà lo straniero verso il Paese in cui la sua vita e sicurezza sono a rischio.

La nuova norma introdotta dal decreto legge 53/2019, non prevedendo alcun riferimento chiaro alla necessità di rispettare gli obblighi comunitari ed internazionali in materia di non refoulement, potrebbe essere applicata quale forma di lex specialis che si sottrae, quanto meno nella prassi, a tali obblighi inderogabili.
In particolare l’utilizzo generico del termine “riammissione” utilizzato dalla norma sembra sottendere ad una precisa volontà di sottrarsi, tramite l’uso massiccio dello strumento giuridico del respingimento, ai vincoli previsti dalla Direttiva 115/2008/CE che prevede che gli Stati possono non applicare le disposizioni della Direttiva nei confronti degli stranieri “sottoposti a respingimento alla frontiera conformemente all’articolo 13 del codice frontiere Schengen ovvero fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non hanno successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro”.

Il rischio che la nuova normativa possa essere utilizzata per eludere in modo esteso il principio di non refoulement appare concreto.

Gianfranco Schiavone è vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

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