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Il decreto Salvini spiegato per slogan ai prefetti: ecco la circolare del Viminale

Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini

Il 18 dicembre il ministero dell’Interno ha inviato una nota “illustrativa” della legge in tema di immigrazione e sicurezza agli uffici territoriali chiamati ad applicarla. Ma quella che sarebbe dovuta essere una puntuale parafrasi della norma ha assunto invece forma e contenuto di un manifesto elettorale. “Un capolavoro per non dire niente”, secondo Gianfranco Schiavone

Il ministero dell’Interno ha deciso di “illustrare” i contenuti del “decreto Salvini” a tutti i prefetti del Paese. A oltre due mesi dall’entrata in vigore del decreto legge su immigrazione e sicurezza (5 ottobre 2018) promosso dal ministro Matteo Salvini, e a poche settimane dalla sua conversione parlamentare, il Viminale ha infatti inviato agli uffici governativi una circolare (protocollata il 18 dicembre 2018) per “illustrare le principali disposizioni d’insieme” del provvedimento. Ma quella che sarebbe dovuta essere una puntuale parafrasi esplicativa della norma per i funzionari chiamati ad applicarla, ha assunto invece forma e contenuto paragonabili a quelli di un manifesto elettorale lungo 18 pagine. “Un capolavoro per non chiarire niente”, come sintetizza Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione.

Buona parte della circolare -firmata dal capo di gabinetto del ministro Salvini, il prefetto Matteo Piantedosi- è dedicata al cuore della legge, ovvero al “tema immigrazione”, definito “sempre più centrale nelle politiche nazionali, in relazione all’esposizione del nostro Paese, per la sua collocazione geografica, ai movimenti di persone verso l’Europa”. È un lungo elenco di “successi”, come fosse un comunicato stampa. Il Viminale rivendica “l’assunzione di un ruolo proattivo da parte del nostro Paese […] a un più incisivo controllo della frontiera marittima” e celebra dinanzi ai prefetti la “decisa contrazione degli arrivi irregolari sulle coste”. Sarebbe stata letteralmente “disinnescata” “l’equazione automatica tra salvataggio in mare degli immigrati e il loro sbarco e ingresso nel nostro Paese”, e finalmente “ridisegnato” il sistema nazionale dell’asilo. Schiavone sottolinea la confusione del documento fin dai primi passaggi. “Associare il soccorso in mare alla ripartizione tra Stati è soltanto uno spot politico. Il diritto internazionale prevede che il salvataggio in mare si concluda con lo sbarco e l’ingresso presso un porto sicuro che inevitabilmente è l’Italia nella maggior parte dei casi. E questo non ha nulla a che fare con la ripartizione tra gli Stati membri dei richiedenti protezione internazionale che è il nodo cruciale della riforma del sistema asilo nell’Unione Europea, da affrontarsi attraverso una profonda revisione del Regolamento Dublino III. Sono quindi due tematiche giuridiche distinte che vengono abilmente mescolati, e colpisce a riguardo che non si faccia alcun richiamo alla riforma del Regolamento di Dublino finora fallita anche per inerzia e confusione politica dell’Italia in sede Europea (va ricordato che il nostro governo, contro l’interesse nazionale, si è allineato alle posizioni del gruppo di Visegrad contrari a ogni forma di ripartizione)”.

Il frontespizio della circolare ministeriale del 18 dicembre 2018

L’ottica della circolare è tutta politica e l’unico approccio è finalizzato a contrastare quelli che vengono presentati come degli impostori: è necessario un “imprescindibile superamento di un ‘diritto di permanenza indistinto’ (Corte dei Conti, deliberazione n. 3/2018) determinatosi de facto […] per casi predeterminati di istanze evidentemente finalizzate al prolungamento di un soggiorno del quale non si avrebbe titolo”.

Sul banco degli imputati dalla “corte” ministeriale sale di nuovo il riconoscimento della protezione umanitaria, che trova fondamento nella Costituzione (dando attuazione all’asilo costituzionale, Articolo 10, comma 3), esiste da ben prima della normativa sulla protezione internazionale (anni 2007-2008) proprio perché introdotto nel 1998, vent’anni fa. Da “misura residuale del sistema nazionale di protezione” -così la bolla scorrettamente il ministero- sarebbe divenuta una “figura dai contorni indistinti”, “oggetto di applicazione disarmonica”, addirittura “sviando” l’originaria “funzione”.
Il presunto “ricorso strumentale” a questa forma di tutela e protezione, scrive il Viminale, avrebbe fatto “proliferare” istanze “già in origine visibilmente non meritevoli di accoglimento”. L’avverbio “visibilmente” dà l’idea del pregiudizio e dello svilimento dell’operato delle commissioni territoriali.
Oltre al linguaggio, è il ragionamento che colpisce. “Su circa 40.000 tutele umanitarie riconosciute dalle Commissioni territoriali negli ultimi tre anni -scrive il prefetto Piantedosi- poco più di 3.200 sono state le conversioni in permesso di lavoro e circa 250 in ricongiungimenti familiari”. Ergo: “La ‘protezione umanitaria’ non si è rivelata pertanto un adeguato strumento di integrazione”.

L’avvocato Nazzarena Zorzella, membro dell’Asgi e della redazione della rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza, parla di una “circolare di propaganda”. E per dimostrarlo parte proprio dalla questione delle conversioni “mancate”. “È indubbio che le conversioni in permesso di lavoro siano sempre state problematiche -spiega Zorzella- ma non certo per volontà dei titolari di permesso per motivi umanitari. Semmai per l’opposizione delle questure, che hanno sempre preteso particolari tipologie di contratti di lavoro inconciliabili con quelli fatti di norma a stranieri, ai quali vengono proposti per mesi contratti a chiamata, inadatti a garantire quella continuità lavorativa richiesta dagli uffici delle questure. Erano loro quindi a non consentire le conversioni”. Il ministero aggiunge anche il tema dei ricongiungimenti familiari. “Siamo di fronte a una prospettazione falsa e mistificatoria -continua Zorzella-. Non voglio soffermarmi sugli ostacoli posti in questi anni al ricongiungimento familiare, come il livello di reddito richiesto o la complicata idoneità alloggiativa da ottenere. Mi limito a ricordare che per legge le misure del ricongiungimento non si applicavano ai titolari di ‘protezione umanitaria’. Quindi era una preclusione formale. E chi ha scritto quella circolare lo sa benissimo”.

Ad ogni modo, la protezione umanitaria viene presentata come uno “strumento di integrazione”, l’anticamera di una sorta di regolarizzazione. È corretto? “Assolutamente no -afferma l’avvocato Zorzella-. Il collegamento pubblicizzato dalla circolare è sbagliato: quella forma di protezione e tutela veniva riconosciuta in relazione ai rischi a cui sarebbe stata rinviata la persona in caso di rimpatrio nel Paese di origine. L’integrazione è un piano diverso”.
Dal suo osservatorio, Zorzella fa notare anche alcuni (gravi) errori contenuti nel documento ministeriale. “Quando descrive i nuovi permessi di soggiorno che avrebbero ‘razionalizzato’ la protezione umanitaria, la circolare include nella protezione per ‘casi speciali’ anche i permessi per calamità naturale o per atti di particolare valore civile. È scorretto: il decreto legge convertito sostiene un’altra cosa e la circolare non può annoverare tra i ‘casi speciali’ fattispecie che la legge nomina e inquadra diversamente”.

Il capo di gabinetto del ministro dell’Interno Matteo Salvini, il prefetto Matteo Piantedosi, riceve la delegazione nigeriana

Tra i passaggi più “politici” della circolare Piantedosi spicca quello dedicato al concetto di “Paese di origine sicuro”, introdotto nella legge con il maxi-emendamento governativo approvato dal Parlamento con voto di fiducia. “Viene collegata una presunzione iuris tantum di manifesta infondatezza dell’istanza, cui sono connessi l’esame prioritario e una procedura accelerata, con inversione dell’onere della prova a carico del richiedente in ordine alle condizioni di ‘non sicurezza’ del Paese stesso in relazione alla propria situazione particolare”, sostiene il Viminale. A ricevere il marchio “Sicuro” saranno dunque quei “Paesi che partecipano a organismi internazionali, nei quali è presente un ordinamento giuridico e democratico, in cui è assicurato il rispetto dei diritti fondamentali e con i quali si intrattengono proficui rapporti di collaborazione e cooperazione”.
Zorzella è lapidaria: “Così è finito il sistema di asilo in Italia. Basterà includere nella lista Paesi come la Nigeria, il Pakistan, il Bangladesh, per citare qualche esempio, per far scattare procedure rapide e caricare l’ignaro richiedente di un onere della prova gravoso e strumentale”.

Cosa che nel nostro Paese non è possibile perché non in linea con il dettato costituzionale. Come ha ricordato infatti a Parma lo scorso 15 dicembre l’avvocato Livio Neri (Asgi), citando l’ultimo rapporto dell’European Migration Network sui “Safe Countries of Origin” (Commissione europea, marzo 2018), l’Italia aveva fatto sapere di di non voler “adottare una lista dei Paesi sicuri perché vige una regola costituzionale che lo impedisce, riconoscendo infatti la domanda di asilo quale diritto individuale”.

Poi c’è la questione del nuovo sistema di accoglienza, “spezzato” in due dal provvedimento illustrato dalla circolare e trasformato in un gigantesco “sistema parcheggio” (Gianfranco Schiavone). Quel che preme al Viminale, come al solito, è la percezione, questa volta degli amministratori locali. È da qui che nasce l’invito contenuto nel documento indirizzato a tutti i prefetti di coinvolgere i sindaci dei territori interessati affinché “possano disporre degli occorrenti elementi di rassicurazione circa l’assoluta, sostanziale invarianza delle regole di accoglienza” e “dissipare” così “l’immotivata diffusione di preoccupazioni circa gli effetti che la nuova normativa produrrebbe in termini di incremento della ‘marginalità sociale'”.

La realtà è un’altra. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è stato smontato: da sistema unico sia per i richiedenti e sia per i titolari di protezione internazionale o umanitaria è stato ristretto ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati. “La norma precedente era chiara nel disporre che lo SPRAR fosse l’unico sistema di seconda accoglienza per tutti i richiedenti asilo che vi dovevano essere trasferiti nel più breve tempo possibile, dovendosi considerare l’accoglienza straordinaria in strutture temporanee una misura eventuale e limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture del sistema di accoglienza territoriale”. e persone finiscono per strada”, ha chiarito più volte Schiavone.

Poi però la nuova legge ha diviso le strade e distinto il sistema per “status” dei beneficiari. Dall’entrata in vigore del decreto, quindi, diverse prefetture hanno comunicato ai gestori dei centri di accoglienza straordinaria che i titolari di protezione umanitaria presenti nelle strutture debbano essere “invitati” a lasciare i centri di accoglienza e che da inizio dicembre (il caso di Potenza) non sarebbero state più corrisposte somme per la relativa accoglienza. Aggiungendo che la nuova legge escluderebbe la possibilità di trasferimenti negli SPRAR in assenza di permesso di soggiorno per status di rifugiato o per protezione sussidiaria.
“Sostenere, come fa la circolare, che ci sia un’invariata delle condizioni in tema di accoglienza non corrisponde alla verità -rifletta Schiavone-. Il sistema è stato completamente ridisegnato ma si continua a ignorare il problema centrale: ovvero il regime di accoglienza da applicarsi ai richiedenti che hanno presentato la propria domanda di protezione prima del 5 ottobre, prima cioè dell’entrata in vigore del decreto Salvini. Il punto quindi era ed è l’irretroattività della norma, per cui i titolari di protezione internazionale e umanitaria, senza distinzione, hanno pieno diritto a proseguire il loro percorso di accoglienza nello SPRAR e se non vi hanno fatto accesso già da richiedenti, come disponeva la norma previgente per disfunzioni della pubblica amministrazione vi debbono potere accedere da titolari di protezione per usufruire delle misure di supporto all’integrazione sociale. Questo ‘problema’ del passaggio dai CAS allo SPRAR delle persone titolari di protezione non viene volutamente chiarito”. Perché? “Il ministero non voleva prendere atto e dichiarare quello che tutti sappiamo, e cioè che la norma non è retroattiva, ma contestualmente non poteva scrivere che le persone devono essere gettate sulla strada. Quindi non scrive nulla, disegna un capolavoro per non chiarire niente. Non vedo alternative -conclude Schiavone- all’attivazione di opportuni contenziosi, in tutto il territorio nazionale, avverso le mancate accoglienze, affinché si chiarisca in giudizio, la corretta attuazione della norma”.

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