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Esteri / Opinioni

Trump e il debito Usa sono un trampolino per l’euro

Il progetto di Donald Trump per "fare di nuovo grande l'America" passa anche per la protezione del commercio interno dalle importazioni

L’Europa potrebbe usare le contraddizioni e le isterie americane per trasformare la moneta comune nella principale valuta internazionale, e sfruttare la nuova condizione per creare un “debito solidale”, che sostenga la spesa pubblica in settori come la prevenzione del dissesto idrogeologico, la tutela dell’ambiente o innovazione e ricerca

Gli Stati Uniti sono sempre più indebitati. Il gigantesco debito privato che è stato all’origine della crisi, iniziata nel 2007, si è trasformato in parte significativa, negli anni successivi, in debito pubblico, per effetto delle politiche monetarie e creditizie condotte dall’amministrazione Obama. Si è trattato di una scelta politica dalle rilevantissime conseguenze, sorretta da enormi iniezioni di liquidità che non hanno tuttavia consentito al Partito democratico a stelle e strisce di vincere le ultime elezioni presidenziali. In questo pesante contesto si è materializzato Donald Trump nelle vesti dell’isolazionista-liberista a senso unico: il suo mantra si può riassumere nello slogan “l’America agli americani”, secondo il cliché tipico della “dottrina Monroe”, arricchito dalla possibilità, prevista dall’ex magnate perennemente imbronciato, per i Paesi “amici” di portare capitali e di accedere al mercato statunitense, naturalmente alle sue condizioni.

A questa anomala miscela economica si aggiungono muri, battaglie congressuali durissime e una politica estera decisamente non convenzionale. Di fronte a tutto ciò nasce una domanda, inevitabile; come si conciliano simili “strategie”, quantomeno un po’ bizzarre, con il finanziamento del nuovo mostro costituito dal debito pubblico?
Male, verrebbe da dire subito, e per dimostrarlo bastano pochi numeri.  Prima della crisi il debito USA era di circa 10mila miliardi di dollari, oggi è raddoppiato a 20mila miliardi. Fortunatamente per gli americani, però, esso risulta, per circa la metà, nelle mani di soggetti che tendono a non destabilizzarlo: per una percentuale pari al 17 per cento infatti è detenuto dalla Federal Reserve, per l’11 per cento è gestito da fondi pensione con sede negli Stati Uniti  e per il 25 per cento risulta in possesso delle banche centrali di altri Paesi.
Appare evidente che un’ulteriore crescita del debito sarebbe assai difficile da reggere da parte degli Stati Uniti, anche perché sta intanto salendo rapidamente anche il livello di indebitamento mondiale, in larghissima parte denominato in dollari. Il rapporto tra debito complessivo e Pil è salito dal 200% del 2007 al 225% del 2016, per un valore pari a 152mila miliardi di dollari.
In estrema sintesi, l’autarchia di Trump rischia di far implodere il dollaro, lasciando il mondo senza la sua principale valuta: non si può essere autarchici, indebitati e disporre della principale moneta internazionale.

La formula politica ed economica della presidenza americana impone dunque, inevitabilmente, la ricerca di un equilibrio nuovo, che mantenga in vita il sistema degli scambi internazionali, a meno che non si immagini un pericolosissimo mondo afflitto da continue guerre commerciali tra i diversi protezionismi.
Si tratta di un processo di acquisizione dell’autonomia dagli Usa che però, per risultare credibile, non può essere solo monetario, ma ha bisogno di una dimensione culturale e sociale, per la cui realizzazione è necessaria un’Europa realmente integrata e aperta. Serve la convinzione dell’esigenza di un “debito condiviso” e di una moneta internazionale, che sia accettata e utilizzata da gran parte del Pianeta senza essere avvertita come uno strumento di egemonia.
In quest’ottica, un euro globale combinato con una politica solidale possono dare sostanza alla creazione di risorse pubbliche per sostenere gli sforzi di superamento delle disuguaglianze. Una sorta di “debito virtuoso”, che prenda in buona parte il posto del dollaro e leghi finalmente moneta, debito e giustizia sociale. Potrebbe essere molto utile in tal senso l’ipotesi, recentemente avanzata, di nuovi titoli europei emessi da un’entità come il già esistente Meccanismo europeo di stabilità (ESM), il fondo per il salvataggio nato con la crisi finanziaria, che dovrebbe comprare titoli di Stato, cioè i debiti pubblici nazionali, per un valore nominale massimo del 60 per cento del Pil dell’area euro, per poi “impacchettarli” e indirizzarli sul mercato, appunto, a rendimento fisso.
Verrebbe così messa insieme una massa di circa 6mila miliardi di euro, da destinare ad opere indispensabili come gli interventi contro il dissesto idraulico, alla lotta al degrado ambientale, all’edilizia scolastica, all’innovazione, alla formazione e alla ricerca.
Sarebbero risorse che non peserebbero sul singolo Stato e sarebbero raccolte con strumenti che non porterebbero con sé il rischio connesso ai titoli sovrani “nazionali”. Potrebbero inoltre essere utilizzate anche dai Paesi emergenti, minacciati oggi da un debito salito a 16.300 miliardi di dollari e a rischio di pesantissime bolle speculative, come già avvenuto alle realtà più fragili.

Di fronte alle contraddizioni e alle isterie americane, occorre un’idea più chiara di Europa, avendo ben presente che un progetto come quello esposto in questo articolo non ha bisogno di una moneta inutilmente forte e dannosa per le economie più deboli, ma di un euro stabile e affidabile, in grado di rappresentare il vero bene rifugio di cui necessitano gli equilibri mondiali.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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