Finanza / Opinioni
Debito e dollaro preoccupano Trump. Che risponde con armi, petrolio e finanza speculativa
Per ristabilire l’egemonia statunitense minata dall’indebitamento insostenibile e dalla svalutazione della moneta, il presidente degli Stati Uniti sta mettendo insieme un capitalismo ideologicamente fondato su una destra ferocemente identitaria e sorretto da un intervento statale e da un legame organico con gli oligarchi della finanza. L’Unione europea balbetta ma non tutti si fanno spaventare. L’analisi di Alessandro Volpi
Dopo gli ultimi eventi internazionali sono possibili alcune considerazioni sull’attuale posizione di Donald Trump in materia economica e finanziaria. Gli Stati Uniti devono fronteggiare tre questioni critiche: l’eccessivo indebitamento federale che porta con sé l’indebolimento del dollaro e la sua rapida perdita di credibilità internazionale, il rischio di esplosione della bolla finanziaria che è determinata da una ipervalutazione dei titoli con rapporti prezzo utili non giustificabili e infine la necessità di procedere a una almeno parziale reindustrializzazione, puntando su alcuni settori ancora difendibili.
Per la prima questione la strada intrapresa è quella di ricorrere a “guerre daziarie” per aumentare le entrate federali, imponendo tariffe dure soprattutto a quelle realtà come l’Europa che troppo dipendono dagli Usa. Al tempo stesso Trump mira a concepire un largo uso di stablecoin, con sottostante di titoli del debito statunitense, e a puntare sui grandi gestori americani del risparmio globale perché continuino a indirizzare i risparmi di mezzo mondo verso il debito degli Stati Uniti. Per contenere il rischio di esplosione della bolla e, al contempo, per reindustrializzare l’economia americana le ricette principali sono due: mettere insieme tutta la forza finanziaria Usa, legando le Big Three e la “sua” finanza trumpiana, da Peter Thiel a Elon Musk, fino a Larry Ellison, per destinare una massa di liquidità costante sui listini così da farli tenere, e aumentare in maniera massiccia la spesa pubblica -le commesse di Stato- per favorire tale avvicinamento e, appunto, la reindustrializzazione.
In tal senso sono decisivi due grandi programmi come il “Golden Dome”, il sistema di difesa, che mobiliterà oltre 500 miliardi di dollari destinati ad andare a Space X, Palantir, Anduril, Lockheed Martin, Northrop Grumman e L3Harris Techonoligies, e Stargate, il sistema legato all’intelligenza artificiale, in cui far confluire Oracle, OpenAI, Softbank e Microsoft. In sintesi, tanta spesa federale rivolta agli oligarchi della finanza Usa per rianimare l’industria attraverso armi e tecnologia.
A questi elementi strategici Trump ne aggiunge altri due, facilmente individuabili. Si tratta della volontà di sviluppare al massimo la capacità di esportazione del settore dell’energia americana, a partire dal gas liquefatto arrivando a generare una dipendenza quasi totale dell’Europa e di altri parti del mondo, magari mettendo le mani anche sul petrolio venezuelano. A ciò Trump abbina l’utilizzo dello shutdown per operare una drastica, ulteriore privatizzazione del sistema sanitario e pensionistico, così da lasciare massimo spazio alla possibilità per i grandi fondi di trovare milioni di nuovi clienti a cui vendere, oltre agli Etf, persino le criptovalute.
In una simile ottica il presidente degli Stati Uniti sta mettendo insieme un capitalismo ideologicamente fondato su una destra ferocemente identitaria e sorretto da un intervento statale e da un legame organico con gli oligarchi della finanza. L’impressione è che, di fronte a questo posizionamento, l’Unione europea non possa reagire per la sua subalternità finanziaria, economica e militare e che l’unica possibilità di reazione sia nelle mani della Cina e della sua capacità di aggregare parti del mondo a cui Trump vorrebbe affibbiare il “modello Milei”, di cui peraltro si dichiara entusiasta anche qualche politico italiano.
In tale contesto merita una considerazione particolare la già accennata vicenda venezuelana. L’arrivo della portaerei Ford in prossimità delle coste del Venezuela è un segnale molto pericoloso perché rappresenta la manifestazione della volontà di Trump di utilizzare la pressione militare -e forse non solo la pressione- per ribadire la subalternità dell’America Latina. Si tratta di una volontà, però, dettata da una crescente debolezza degli Stati Uniti, testimoniata da almeno due dati.
Il primo. Nel 2018 gli Stati dell’America Latina e dei Caraibi possedevano titoli del debito federale statunitense per quasi 790 miliardi di dollari. A fine giugno 2025, tale cifra si era ridotta a 484 miliardi, in pratica quasi un dimezzamento, seguendo una tendenza che si sta accentuando. In pratica, di fronte al “cortile di casa” che si ribella al finanziamento degli Usa, occorrono segnali forti.
Il secondo dato, meno evidente, è costituito dalla duplice contrazione dell’utilizzo del dollaro come riserva delle banche centrali dell’America Latina e come mezzo di pagamento negli scambi commerciali. Naturalmente si può dare poi per scontato l’interesse americano per il petrolio venezuelano sia sul versante degli approvvigionamenti reali sia su quello della speculazione sui prezzi energetici attraverso gli strumenti della finanza derivata. Debito e dollaro sono i sintomi di una pesante crisi Usa a cui Trump vuole rispondere con armi, petrolio e finanza speculativa. I narcos venezuelani sono un pretesto veramente fasullo.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro con noi è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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