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Economia / Opinioni

La guerra dei dazi tra Cina e Usa mette a rischio un fragile equilibrio

Negli ultimi 20 anni i due Paesi hanno costruito una relazione che ha generato una sorta di mutua dipendenza; che ha avuto conseguenze non banali sulla distribuzione della ricchezza all’interno dei due Paesi. L’opinione di Alessandro Volpi

Il presidente Usa, Donald Trump, con il segretario generale del Partito Comunista, Xi Jinping

L’aspra guerra doganale in corso tra gli Stati Uniti dell’irascibile presidente Trump e la Cina del compassato ed eternato presidente Xi Jinping rappresenta il segnale più evidente della crisi, forse definitiva, di un modello economico e sociale che ha caratterizzato il sistema delle relazioni internazionali degli ultimi vent’anni. Con l’ingresso nella World Trade Organization (WTO), avvenuto nel 2001, un paio di mesi dopo gli attentati alle Torri gemelle, la Cina è stata ammessa nei mercati mondiali con la posizione del “Paese debole” che avrebbe beneficiato quindi di una serie di agevolazioni in materia di esportazioni, soprattutto in direzione degli Stati Uniti.

L’idea, maturata in particolare già durante la presidenza Clinton, era quella di favorire la trasformazione della Cina in una realtà capitalista di mercato perché una simile condizione ne avrebbe favorito la democratizzazione. Da allora le imprese cinesi, la gran parte delle quali di proprietà dello Stato, hanno venduto beni e servizi negli States, gonfiando la bilancia commerciale fino all’attuale, gigantesco avanzo nei confronti degli Usa, pari a 375,2 miliardi di dollari.

Tali scambi sono avvenuti utilizzando il dollaro come strumento di pagamento e ciò ha facilitato molto la tenuta del biglietto verde proprio nel momento in cui la Federal Reserve (la banca centrale americana) praticava tassi d’interesse molto bassi, indispensabili per finanziare i pesanti debiti americani, sia quello commerciale, sia quello federale, ai quali l’imponente mole dei risparmi cinesi, a lungo sottratti ai consumi interni, hanno garantito una copertura importante con l’acquisto massiccio di titoli pubblici a stelle e strisce.

In altre parole, gli ultimi vent’anni sono stati contraddistinti da un modello in cui la Cina produceva a basso costo e a basso prezzo, esportava negli USA, potendo crescere molto rapidamente e, al contempo, forniva alla più grande economia dell’Occidente il supporto per vivere al di sopra dalle sue possibilità. Senza il volume di dollari mosso dagli scambi della Cina, senza la vera e propria “dollarizzazione” della maggiore economia emergente del pianeta e senza l’effetto di raffreddamento dell’inflazione americana, consentito dell’arrivo sul mercato interno degli Stati Uniti di prodotti cinesi a basso costo, il dollaro sarebbe stato probabilmente assai più debole e instabile, il potere d’acquisto più limitato e non sarebbero stati possibili né i rally borsisitici precedenti al 2008 né i colossali salvataggi bancari con denaro pubblico operati dalla Federal Reserve dopo quella data.

Cina e Stati Uniti, dunque, hanno conosciuto una stretta simbiosi che, oltre a generare una sorta di mutua dipendenza,  ha avuto conseguenze non banali sulla distribuzione della ricchezza all’interno dei due Paesi. In Cina il legame con gli Usa ha reso praticabile una rapidissima crescita che è servita poi ad alimentare la distribuzione della ricchezza e la spinta dei consumi, con qualche fiammata inflattiva, mentre negli Stati Uniti le relazioni cinesi hanno contribuito ad alimentare una marcata finanziarizzazione, indotta dalla liquidità facile, e lo spostamento della ricchezza dal lavoro alla finanza.

Questo paradigma ha retto fino a quando l’impoverimento diffuso, determinato dalla fuga delle fabbriche e dalla scomparsa del lavoro entro i confini nazionali, non è stato più compensato dai benefici provenienti dai listini di Borsa schizzati alle stelle e dai mancati fallimenti bancari. In estrema sintesi, ha tenuto fino a quando la polarizzazione della ricchezza in un numero limitato di soggetti ha trasformato il resto del Paese in una base di consenso per lo slogan “America first” tanto caro a Trump.

La nuova presidenza ha inteso cavalcare questa battaglia a difesa delle produzioni e dei lavoratori americani declinandola nei termini di un ruvido protezionismo, tanto accentuato da assumere i caratteri dell’autarchia che costringerebbe gli Stati Uniti a dover provvedere da soli a se stessi. Una condizione davvero complicata per un Paese che è stato storicamente importatore, che è molto indebitato e dispone di una moneta surriscaldata da anni di sovraproduzione.  La politica autosufficiente di Trump rischia di determinare una netta divaricazione fra capitalismo e mercato, plasmando uno scenario pressoché sconosciuto nell’economia contemporanea della globalizzazione e che richiama alla mente quanto accaduto negli anni Trenta del Novecento quando lo sviluppo economico nazionale si fondava in vari Paesi europei su rigide politiche protezionistiche e su sistemi monetari assai artificiali. Allora l’esito fu quello, drammatico, di un conflitto mondiale dettato dal fatto che senza mercato la formazione della ricchezza si regge sullo scontro e sulla conquista intesi come gli strumenti principali delle politiche economiche. Le democrazie sono state l’antidoto a tali rischi; ma la Cina e gli Stati Uniti sono ancora democrazie?

Università di Pisa

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