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Opinioni

Dalla Social Card al fallimento

Cronaca di tre anni vissuti pericolosamente, in cui le “politiche sociali” del Governo italiano non hanno contrastato la povertà, mentre sono proseguiti i tagli ai fondi. Senza criterio, senza risultati

Tratto da Altreconomia 131 — Ottobre 2011

“Dobbiamo riportare la persona al centro del modello sociale” eppoi “è ragionevole pensare che cresca la quota del Pil dedicata ai bisogni essenziali: occorre agire sul lato della domanda, organizzandola”. Erano le parole del neo ministro del Welfare Maurizio Sacconi (nella foto) in un forum con rappresentanti del terzo settore nel 2008, poco dopo la sua nomina. Poi è arrivato il Libro bianco sul welfare, quello verde, i dialoghi con gli amici, gli annunci senza misure concrete e le storielle sulle suore violentate. Lettera morta è rimasta “l’azione da adottare con urgenza del reddito di ultima istanza” per chi “proprio non ce la fa”. Nel libro, dal rassicurante titolo “La vita buona nella società attiva”, si sosteneva che “l’organizzazione di concrete soluzioni ai bisogni degli ultimi è il primo obiettivo di una società coesa”.
La prima misura: ogni destinatario della social card -una carta di credito da usare per acquisti di prima necessità (e qualche bolletta)- nel corso della prima sperimentazione ha ricevuto in media 370 euro in un anno. Secondo la Commissione di indagine sull’esclusione sociale, questa misura ha fatto scendere la percentuale di povertà assoluta dal 4,18% al 4,11%. Dopo questa esperienza non certo esaltante è stata reintrodotta anche quest’anno: 65 euro al mese per sfamare i più poveri tra i poveri. Poi sono arrivate le sempre più frequenti manovre finanziarie: hanno colpito chi aveva meno voce, chi contava meno nella confusa arena politica. I dieci più importanti fondi sociali nazionali sono stati cancellati o ridotti drasticamente (come documentato nel numero 128 di Ae): tagli pari a quasi l’80% con una cifra annuale passata da 2,5 miliardi di euro a 538 con l’ultima legge di stabilità. Stiamo parlando di fondi per le politiche sociali, la famiglia, la non autosufficienza, l’inclusione sociale degli immigrati. Voci di bilancio apparentemente lontane dalla vita di tutti i giorni, ma che invece influiscono sulla qualità della vita di milioni di italiani e cittadini stranieri che si trovano disoccupati, che hanno anziani o disabili in casa, che non arrivano a fine mese. A colpire al cuore i servizi di base sono però soprattutto i tagli agli enti locali: qua il braccio di ferro è ancora in atto, ma già le ultime manovre hanno lasciato a secco molti dei rubinetti che servivano per sviluppare quei servizi sul territorio di cui prima o poi tutti abbiamo bisogno. In questo contesto la retorica politica puntava molto sulla “big society all’italiana”: ciascuno faccia la sua parte perchè il pubblico non può garantire tutti i servizi e i soldi saranno sempre meno. E si faceva, e si fa, appello alle istituzioni non profit: sono più di 220mila in Italia con 4 milioni di impiegati, più di 3 milioni di volontari. Molti di queste gestiscono servizi importanti e vanno avanti con fondi pubblici locali, donazioni di privati, volontari del servizio civile e i proventi del 5 per mille. L’ultima edizione del 5 per mille ha visto un tagli di 100 milioni di euro su 400 stanziati. Si chiama 5 per mille, ma matematicamente è un’altra cosa visto che il governo fissa il tetto di spesa di anno in anno. Sul fronte del servizio civile si è passati dai 52.000 giovani arruolati nell’anno 2007 ai quasi 19.000 in servizio attualmente. Ed è una doppia perdita perchè colpisce le associazioni di volontariato e i giovani in cerca di esperienza e di una prima occupazione. Poi l’altro colpo mortale: dal giorno alla notte, nella primavera del 2010, le tariffe postali per l’editoria non profit sono aumentate di 5 volte.
Nel mezzo della nebbia estiva è arrivato anche il confuso colpo alle agevolazioni fiscali, deduzioni e detrazioni che interessano famiglie, disabili, organizzazioni non profit e i loro donatori. Tagli lineari e quindi senza esenzioni. L’articolo 40 della manovra di luglio ha così “liberato” (con il termine nobile usato per spalmare di zucchero l’iniziativa) dalle casse dell’erario 24 miliardi entro il 2014, mentre il famoso “decreto di ferragosto” ha anticipato di un anno le misure. Ma i mercati, e la Banca centrale europea, bussavano alle porte e con la manovra approvata in via definitiva con voto di fiducia il 14 settembre si è dovuto raccattare ancora qualcosa, guardando chi ha più liquidi: e allora l’aumento delle imposte sui cosiddetti utili accantonati a riserva delle cooperative che usano questi soldi per spese e investimenti futuri. Mancavano giusto i cosiddetti “clandestini” ad accollarsi un po’ di risanamento: e allora viene introdotta l’imposta di bollo al 2%, per un minimo di 3 euro, sui trasferimenti di denaro all’estero attraverso gli istituti bancari, le agenzie “money transfer” e altri agenti in attività finanziaria, pur con l’esenzione delle persone fisiche munite di matricola Inps e codice fiscale e i cittadini europei. Saranno pochi e confusi spiccioli visto che basterà trovare un prestanome per evitare il balzello. Ma non è finita: si profila una riforma assistenziale e fiscale per drenare, entro il 2014, altri 40 miliardi dalle tasche dei cittadini e dai servizi alla persona. Le associazioni dei disabili hanno protestato clamorosamente raccogliendo decine di migliaia di firme e chiedendo di slegare la riforma assistenziale in previsione dalla disponibilità di cassa per rendere effettivi i loro diritti. Ammesso che davvero si riesca a recuperare così tante risorse -e molti analisti lo mettono in dubbio- sul fondo del barile c’è sempre da raschiare.

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