Ambiente / Opinioni
Dal greenwashing alla neutralità climatica: rischi e sfide del ministero per la Transizione
Per chi da tanti anni segue le politiche sull’ambiente e il clima in Italia, e la voracità delle lobby “sviluppiste”, il nome “transizione ecologica” fa sorgere il sospetto di un’operazione di facciata. Non dimentichiamoci che l’obiettivo è quello della rapida uscita dal sistema dei combustibili fossili. L’analisi di Stefano Caserini
La proposta di istituzione di un ministero per la Transizione ecologica è stata salutata con unanime consenso, in particolare dal mondo ambientalista e più in generale da chi ritiene sia oggi necessario cambiare la direzione del nostro modello di sviluppo, considerando in modo più serio e concreto la questione della sua coesistenza con i limiti del Pianeta.
È sicuramente una cosa positiva che si sia pensato a dare importanza ai temi ambientali, visto che nei resoconti dei giornali delle ultime settimane sembravano ancora una volta spariti, o almeno ridotti ai minimi termini. Ad esempio, nell’intera pagina cinque del Corriere della Sera dello scorso 9 febbraio in cui venivano spiegati i possibili futuri punti del programma del governo di Mario Draghi, l’ambiente compariva solo all’interno di un riquadro intitolato “Infrastrutture e ambiente”. Dentro il riquadro in realtà si parlava soltanto di infrastrutture e non c’era nulla di ambiente. In tutta la pagina non compariva nulla sul cambiamento climatico, solo una citazione generica di un “piano di sviluppo che sia sostenibile e virtuoso” e una “attenzione all’ambiente” che ormai nessuno si nega. In questo contesto è quindi positivo, molto positivo, che si parli di transizione ecologica come uno dei punti centrali programmatici del prossimo governo.
Con lo sguardo sereno e anche un po’ soddisfatto di chi da un paio di decenni sostiene che ai temi ambientali e climatici si debba dare più spazio e attenzione, è però il caso di ragionare sui limiti, i pericoli di questa proposta del ministero per la Transizione ecologica.
Il primo è che il nome “transizione ecologica” è generico, ma se lo si prende sul serio contiene davvero tanto. La transizione ecologica riguarda non soltanto l’ambiente, la natura, il paesaggio, la biodiversità, l’inquinamento di acqua, aria e suolo ma sicuramente la questione climatica, ossia l’uscita dal sistema dei combustibili fossili. Questo richiede interventi sulla produzione e l’efficienza del consumo di energia elettrica e di calore (abitazioni, industrie, commercio, eccetera), sui trasporti e mobilità sostenibile (infrastrutture), sull’agricoltura e l’economia circolare (risorse, rifiuti), sulle politiche urbanistiche (consumo di suolo). Il pericolo è che, dovendo occuparsi di troppe cose, alla fine in concreto questo ministero non si occupi davvero di niente o di molto poco.
In altre parole, per chi da tanti anni segue le politiche sull’ambiente e il clima in Italia, la loro drammatica inerzia, la voracità delle lobby “sviluppiste” fra le più arretrate d’Europa, questo nome “transizione ecologica” fa sorgere il sospetto di un’operazione di facciata: un ministero dotato di poteri e fondi non molto diverso da quello del ministero dell’Ambiente, al di là del nome più aggiornato. Un ministero che avrebbe grandi competenze teoriche, ma che non dispone di reale potere per incidere davvero. Oppure un ministero congiunto fra Sviluppo economico e Ambiente, in cui il conflitto fra i due temi sarà relegato ai viceministri che gestiranno le diverse deleghe.
So che questi dubbi potrebbero essere visti come lamentele di ambientalisti eternamente scontenti. Ma è indubbio che quando Stefano Bartezzaghi fa notare che uno degli anagrammi di Transizione ecologica è sognatori eccezionali, coglie una paura diffusa, radicata in decenni di retorica sulle politiche ambientali. Ho abbastanza memoria per ricordare i roboanti proclami sull’importanza dell’ambiente, l’ecologia e le generazioni future di un politico con la metà degli anni di Draghi, che ha poi assegnato la guida del ministero dell’Ambiente al commercialista di Pier Ferdinando Casini, e ora indica come nuovo rinascimento una dittatura feudale con un’economia basata sul petrolio e tre volte le emissioni pro capite di gas climalteranti dell’Italia.
Quanto questo rischio del greenwashing sia fondato lo si vedrà nei prossimi giorni, da quanti e quali saranno gli altri ministeri e quali competenze avranno. Ad esempio, una scelta chiave è: questo ministero sostituirà o si aggiungerà al ministero dell’Ambiente? E ancor importante sarà il peso politico della persona che lo guiderà. Sarà una persona competente e con una visione su questo tema o sarà un tecnico riciclato dagli ambienti industriali un po’ meno arretrati? Essendo un ottimista penso sia ragionevole aspettarsi che non saranno nominati pseudo negazionisti climatici (quelli veri oggi sono praticamente scomparsi).
Potrebbe essere meglio definire le competenze di questo nuovo ministero e limitarle a qualcosa di specifico, con obiettivi ambiziosi ma chiari e circoscritti.
L’obiettivo dovrebbe essere quello della rapida uscita dal sistema dei combustibili fossili, in tempi molto rapidi. Non è un mio obiettivo, è qualcosa che l’Italia ha già deciso, in questi giorni è stata trasmessa all’Unione europea la strategia nazionale al 2050, che prevede in soli tre decenni il raggiungimento della neutralità climatica. Un ministero della Transizione energetica dovrebbe con molta chiarezza avere al centro questo obiettivo, dovrebbe guidare le politiche per l’efficienza energetica e l’energia rinnovabile in tutti i settori, dall’industria alle abitazioni, dai traporti all’agricoltura. Sarebbe quindi un ministero con molti compiti ma che ne lascerebbe tanti altri legati all’ambiente e all’ecologia ad altri ministeri, in primis il ministero dell’Ambiente. Nella Commissione europea la Direzione generale all’azione sul clima è stata affiancata alla Direzione generale ambiente, non l’ha sostituita. Il commissario, Franz Timmermans, è anche vicepresidente della Commissione europea.
Potrebbe sembrare una limitazione passare dalla transizione ecologica alla transizione energetica, in realtà sarebbe un modo per fare più concretamente sul serio. Infine, un ultimo aspetto cruciale: mettere in campo una transizione ecologica verso un’economia circolare e non basata sui fossili richiede grandi investimenti. Chi paga? Sappiamo che nel complesso è una transizione vantaggiosa dal punto di vista economico, ma servono grandi capitali anche pubblici. La maggior parte potrà arrivare dal mondo privato, ma una parte ingente dovrà essere messa in campo dalle istituzioni pubbliche. Il Next Generation Eu offre molte risorse ma è chiaro che prima o poi si porrà il problema di chi dovrà pagare il conto.
E questo è un punto cruciale: da come si deciderà di ripartire i costi dipenderà l’accettazione sociale, e quindi la reale fattibilità, della rivoluzione necessaria per una transizione che ci porti alla neutralità climatica al 2050.
Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2019)
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