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Da poveri a ex – Ae 77

Sconfiggere la povertà può essere l’obiettivo di una banca. Mohammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, ci ha scommesso la vita, e oggi alla Grameen Bank s’ispirano anche programmi di microcredito nei Paesi ricchi. C’è da crederci? Quando lo…

Tratto da Altreconomia 77 — Novembre 2006

Sconfiggere la povertà può essere l’obiettivo di una banca. Mohammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, ci ha scommesso la vita, e oggi alla Grameen Bank s’ispirano anche programmi di microcredito nei Paesi ricchi. C’è da crederci?


Quando lo abbiamo incontrato, in occasione di uno dei suoi viaggi in Italia, Muhammad Yunus aveva già i capelli d’argento e l’aria tranquilla. Ed era già conosciuto in tutto il mondo come il “Banchiere dei poveri”. A noi che lo intervistavamo per il libro “Umanizzare lo sviluppo” (ed. Rosenberg & Sellier/Ucodep), ha raccontato l’avventura che oggi lo ha portato sulle prime pagine dei quotidiani come vincitore del premio Nobel per la pace. La “sua” banca, la Grameen Bank, rilascia crediti senza chiedere alcuna garanzia. E praticamente non esiste insolvenza: il 98% dei clienti della “banca dei poveri” paga con regolarità i suoi debiti. Negli anni è diventata un caso. Ricerche della Banca mondiale hanno documentato come l’attività della Grameen Bank,  negli anni, ha determinato “un aumento generale dei livelli di sviluppo” del Bangladesh. Programmi ispirati a Grameen Bank sono oggi operativi in decine e decine di Paesi del mondo, comprese nazioni ricche come gli Stati Uniti, il Canada, la Francia, la Norvegia, l’Olanda e la Finlandia.



Professor Yunus, lei davvero crede che sia possibile sconfiggere la povertà?

“Grameen Bank è conosciuta come la Banca dei poveri. E io trovo questa definizione esatta. Grameen Bank nasce come una ribellione a un sistema bancario colpevole di mettere in atto una inaccettabile apartheid finanziaria. Le banche convenzionali non concedono prestiti ai poveri. Le donne, in Bangladesh, sono escluse dal credito. Le istituzioni finanziarie internazionali sono ingiuste. L’esperienza di Grameen Bank dimostra che è stato possibile prestare denaro direttamente a milioni di persone. Le condizioni di vita dei poveri che hanno beneficiato di programmi di microcredito sono migliorate. Se le banche e i grandi organismi finanziari aprissero le loro porte, se i banchieri non fossero miopi ed egoisti, potremmo davvero sconfiggere la povertà. Il credito deve diventare un diritto umano. Se il sistema finanziario concedesse opportunità ai poveri, il mondo ne ricaverebbe solo vantaggi: ogni essere umano ha creatività straordinarie e formidabili capacità. La povertà potrebbe essere sconfitta se le grandi istituzioni finanziarie, pubbliche e private, fossero capaci di sfruttare l’immensa potenzialità di ogni essere umano. Escludere i poveri dall’economia è una perdita per lo sviluppo dell’umanità”.



Il 95% dei clienti di Grameen Bank sono donne. La banca non presta agli uomini?

“In Bangladesh solo l’1% dei clienti delle banche convenzionali erano donne. Era una discriminazione ingiusta. Nei primi anni di vita di Grameen Bank ci ponemmo l’obiettivo di avere la metà dei clienti donne. Non fu facile: erano intimorite e ci rispondevano: ‘Date i soldi a mio marito’. Abbiamo impiegato sei anni per raggiungere quel risultato del 50% di clienti donne. E ci accorgemmo subito che erano più impegnate, più responsabili, più creative degli uomini. Non solo: se concedevamo un prestito a una donna, eravamo certi che ne avrebbe beneficiato l’intera famiglia. La donna pensava ai figli, l’uomo si assumeva minori responsabilità. Le donne hanno una visione del futuro più solida, fanno progetti a lungo periodo, mentre l’uomo vuole godersi subito quel poco che ha. Le donne hanno la capacità di gestire la  vita quotidiana con risorse scarsissime e quindi sanno sfruttare al massimo i prestiti che ricevono. Le donne sono diventate, per questo, la priorità di Grameen Bank. Abbiamo dovuto vincere diffidenze, incentivare i nostri impiegati perché si convincessero a lavorare con le donne che oggi sono la quasi totalità dei soci-clienti della banca”.



Tutte le previsioni sostengono che il divario fra ricchi e poveri crescerà. Non crede di essere troppo ottimista?

“Il mio impegno prioritario è la lotta alla povertà. Le statistiche delle Nazioni Unite rivelano che un miliardo e mezzo di persone vive con meno di un dollaro al giorno. Questa cifra è destinata a raddoppiare entro il 2040. Io trovo che questo sia intollerabile. Grameen Bank sta cercando di combattere contro la povertà. Noi vogliamo che le condizioni di vita dei poveri migliorino. Che abbiano una casa, educazione, cure sanitarie adeguate. Che non soffrano la fame. E che abbiano opportunità, che possano scegliere la loro vita. A noi interessano coloro che stanno sull’ultimo gradino della scala sociale. È vero che, nel frattempo, i ricchi diventano sempre più ricchi. Ma questo divario fra ricchi e poveri è una questione secondaria. Io ho fiducia nella tecnologia: troveremo soluzioni capaci di cambiare il modo di produrre e consumare dei ricchi. E sono altrettanto convinto che migliori condizioni di vita dei poveri rappresentino un beneficio per tutti. In Bangladesh 60 milioni di persone, la metà della popolazione, non possiedono uno spazzolino da denti. Se tutti avessero la possibilità di acquistare uno spazzolino da denti, chi li vende farebbe un affare colossale. I poveri possono essere produttori, inventori e consumatori. È una grande sciocchezza escluderli dall’economia”.



Si aspetta l’obiezione? Se tutti i cinesi usassero carta igienica, non ci sarebbero più alberi nel mondo…

“Non è certo un buon argomento. Non possiamo escludere i cinesi dal consumo della carta igienica solo perché i ricchi hanno distrutto le foreste. Il mondo deve ridurre il consumo di carta. Noi dobbiamo inventare un sistema di riciclaggio oppure scovare qualcosa che sostituisca la carta igienica. Sarà necessario ripiantare gli alberi che abbattiamo per produrre questa carta. L’economia deve essere sostenibile. Ma è il mondo dei ricchi che ha già distrutto le sue foreste. Non può scaricare le sue colpe sui poveri, non può costringere i cinesi a non usare la carta igienica”.



Lei ha fiducia nella tecnologia. Ma, ancora una volta, gran parte degli economisti sostiene che Internet renderà ancor più grande il gap fra ricchi e poveri. È così?

“La scoperta del fuoco, in sé, non è stato né un evento positivo, né un evento negativo. Il fuoco può distruggere, con il fuoco si possono bruciare persone e case, si possono compiere devastazioni. Ma il fuoco riscalda, permette di forgiare i metalli e fondere il vetro, il fuoco consente di costruire splendide opere d’arte e, grazie a questa tecnologia, si cucinano ottimi cibi. Il fuoco è tecnologia. L’uomo decide come usarla. Internet è tecnologia. Vuoi usarla per impoverire il mondo, lo puoi fare. Vuoi usarla per migliorare il mondo, puoi fare anche questo. A te la scelta. Non aver paura di Internet, devi aver timore di quello che tu puoi fare. Non dare la colpa a Internet, dai la colpa a te stesso”.



Se io usassi le parole “libero mercato dei poveri”, lei sarebbe d’accordo? Lei vuole che i poveri entrino in questa economia, non in un’altra economia?

“Mi dica quale altra economia esiste? Sì, sono d’accordo. Io voglio che i poveri diventino degli ex-poveri. Il nostro impegno è liberare le immense potenzialità dei poveri. Io sono certo che proprio gli ultimi della terra, i senzacasa, i detenuti, i violenti, i tossicodipendenti, abbiano grandi capacità. La società non vuole concedere loro nessuna opportunità. Non possiamo limitarci a una semplice assistenza, alla carità: gli uomini non sono animali, non sono bestie rinchiuse in uno zoo a cui ogni tanto andiamo a dare da mangiare. Ogni essere umano deve partecipare alla vita di questo mondo”.



Grameen Bank presterebbe soldi a chi non è povero?

“L’economia si basa sul denaro. E Grameen Bank presta denaro ai poveri. Il povero deve avere soldi per realizzare le sue idee, il suo commercio, la sua attività. I poveri sono gli azionisti di Grameen Bank, ne sono i padroni. E un impiegato della banca non può cacciare il suo proprietario. Se l’attività di un povero ha successo, la banca non cesserà di finanziarla: sarebbe sciocco fermarsi, perderemmo un buon cliente. Spesso mi è stato chiesto: ‘Qual è l’obiettivo finale di Grameen Bank?’ Noi oggi stiamo prestando denaro a milioni di persone in Bangladesh. Vogliamo che non siano più povere. Il nostro sogno è che, nel più breve tempo possibile, la banca cambi la sua identità: vorremmo che la ‘banca dei poveri’ diventasse la ‘banca degli ex-poveri’. Siamo anche ottimisti e siamo convinti che ci riusciremo. Alcuni poveri avranno bisogno di più tempo, altri usciranno prima dal tunnel. Ma la nostra direzione è chiara, come chiaro è il nostro obiettivo: eliminare la povertà”.



La globalizzazione non è un fenomeno così imponente da minacciare il microcredito e da condannare i poveri alla miseria?

“Ancora una volta: la globalizzazione, di per sé, non ha colpe. Non è un processo che minaccia o favorisce i poveri. Se gestita nel modo corretto potrà offrire grandi opportunità. Potrebbe consentire ai poveri di allargare i confini della loro economia, di scavalcare i recinti angusti del proprio villaggio. Potrebbe migliorarne le condizioni di vita”.



Professor Yunus, lei insegnava economia. Crede ancora nelle teorie economiche?

“Ho la sensazione che l’economia basi le sue leggi su presupposti che ignorano gli esseri umani. L’economia tratta gli uomini e le donne come macchine e nega gli elementi essenziali della natura umana. L’economia prevede solo due attori sulla scena: gli imprenditori e i lavoratori. E considera gli imprenditori come persone dalle capacità eccezionali. Sono state create istituzioni che difendono solo questa casta. E così sono state ignorate le potenzialità della gran massa dell’umanità. L’economia ama definirsi come una scienza sociale. Non lo è: l’economia parla di lavoro e di manodopera. Non parla di uomini, donne e bambini. Una scienza che vorrebbe essere sociale non può ignorare l’ambiente che pretende di analizzare”.





Quell’idea rivoluzionaria

Era il 1974 e, nelle misere strade del villaggio di Jobra, Yunus incontrò una donna che intrecciava bambù per fare sgabelli. Sufia era brava, abile, infaticabile. E poverissima. Non guadagnava più di due centesimi di dollaro al giorno. Era costretta a comprare la materia prima da un commerciante-usuraio che obbligava la donna a rivendere solo a lui i suoi sgabelli. Con 22 centesimi di dollari, Sufia si sarebbe affrancata dal suo “padrone”, avrebbe potuto acquistare il bambù liberamente e rivenderlo, con profitti più alti, al mercato del paese: avrebbe, in altre parole, cominciato a sconfiggere la povertà. Fu una rivelazione: Yunus gettò alle ortiche le teorie economiche e finanziarie che insegnava all’università e creò, nel 1977, le fondamenta della Grameen Bank, la banca che prestava ai poveri.







Davide Musso

L’altro fondatore

Olandese di origine ma messicano d’adozione, Frans Van der Hoff è considerato uno degli “inventori” del commercio equo. Ecco che cosa ci ha detto di sè e del suo lavoro attuale



“Per comprendere le persone bisogna vivere con loro, al loro stesso livello. E vivendo con i contadini messicani, ascoltando le loro esigenze, il commercio equo è nato come conseguenza automatica”.

Frans Van der Hoff, universalmente considerato uno degli “inventori” del fair trade, ha appena concluso un tour in Italia, ospite di Arci e Fairtrade Italia. “Fare commercio equo -continua- non significa fare beneficienza: è sempre business, ma un business con regole diverse, che non crea miseria ma consente ai produttori una povertà dignitosa”.

Olandese, 67 anni e capelli bianchi come la neve, da trent’anni è messicano d’adozione: “Prima vivevo in Cile, dove lavoravo in una miniera di rame, ma nel 1973 Pinochet mi ha invitato ad andarmene”, dice sorridendo. Van der Hoff è un sacerdote (è stato ordinato nel ‘68) “ma lavoratore”, come tiene a precisare: nei suoi due ettari coltiva caffè e fagioli (“guadagno 3 dollari al giorno”), come gli altri 3.800 affiliati a Uciri, l’organizzazione di coltivatori di cui è uno degli animatori, e che oggi è tra i principali produttori di caffè equo e solidale: 1.300 tonnellate l’anno, tutte bio.



Quali sono i progetti di Uciri?

“Stiamo cercando di costruire un mercato equo e solidale locale. Già oggi vendiamo il 30% dei nostri prodotti in Messico: frutta tropicale, succhi di frutta e marmellate, pomodori e parte del caffè. E nel giro di dieci anni puntiamo a vendere tutta la nostra produzione localmente, interrompendo le esportazioni. Esperienze simili partiranno molto presto anche in Brasile e in Cile e i produttori in Kenya e Uganda si stanno organizzando”.



Perché una decisione così radicale?

L’obiettivo è quello di permettere a un numero maggiore di produttori di accedere al mercato equo, e di ridurre il più possibile le distanze con i consumatori. Dal punto di vista economico il commercio locale è molto più vantaggioso di quello orientato al’export, perché tutto il plusvalore resta nel nostro Paese”.



Quali sono, secondo lei, i problemi principali del commercio equo oggi?

“Un errore tremendo è permettere a multinazionali come Nestlé o McDonald di entrare nel commercio equo. Le corporation si stanno muovendo in questa direzione perché sentono la pressione dei consumatori, ma è solo una cortina fumogena, questo è certo. Vanno mantenute sotto pressione, utilizzando il boicottaggio”.

Ritiene che il sistema economico funzionerebbe meglio senza multinazionali?

“Le multinazionali esisteranno sempre, ma il loro comportamento e le regole possono cambiare. Io dico sempre che il commercio equo è un nuovo modo per fare business che nel prezzo del prodotto incorpora il costo di produzione e il costo sociale. Ma è comunque business”.



Il fair trade è un sistema basato sulla fiducia: i consumatori devono fidarsi di quello che produttori, importatori e rivenditori raccontano loro. Per questo il tema di una certificazione attendibile sta diventando sempre più cruciale. Quale può essere la strada?

“È fondamentale che le ispezioni vengano effettuate da organizzazioni totalmente indipendenti dal commercio equo, e oggi non è così. E poi i criteri per i produttori devono essere stabiliti dai produttori stessi. Voglio dire: nessun italiano accetterebbe che fosse un francese a decidere le leggi per l’Italia. Nel commercio equo, invece, sono i tedeschi (Flo, il certificatore di alcuni prodotti equi, ha sede a Bonn, ndr) a fissare le regole a cui devono attenersi i produttori messicani…”





Per non avere più Bush alla Casa bianca

Ecco come Frans Van der Hoff (nella foto in alto) ha commentato con AE il premio Nobel assegnato a Yunus. “Con Yunus siamo buoni amici e dopo l’assegnazione del premio l’ho chiamato per congratularmi con lui. La sua risposta è stata: questo è il primo tentativo di far capire alla gente del Nord che la pace è una cosa diversa dal non fare la guerra, ed è invece una questione di economia. Insomma, la commissione norvegese (che assegna il Nobel per la pace, ndr) ha capito che creare condizioni di vita decenti per tutti è il modo migliore per non avere più terroristi, per non avere più armi, per non avere più uno come Bush alla Casa Bianca”. Questi i libri di Van der Hoff tradotti in Italia: “Max Havelaar. L’avventura del commercio equo e solidale” (Feltrinelli) e “Faremo migliore il mondo” (Bruno Mondadori).



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