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Da Genova 2001 a George Floyd: la violenza della polizia è quella del sistema. Che va ripensato

Le proteste esplose negli Stati Uniti e in Europa toccano ancora nervi scoperti. Italia inclusa. L’analisi di Enrico Zucca, pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz nel 2001

Tratto da Altreconomia 228 — Luglio/Agosto 2020
Gli agenti della LAPD schierati durante le proteste a Los Angeles contro la violenza della polizia, il 30 maggio 2020. Migliaia di manifestanti si erano dati appuntamento al Pan Pacific park - © Karzen Kit/ABACA/IPA

La misura è colma. Uso della forza letale -un potere che la società consegna alle forze di polizia- in maniera sproporzionata, impunità, manifestazioni di protesta, nuova violenza. Un circolo vizioso e ancora niente pace senza giustizia. L’uccisione di George Floyd a Minneapolis chiama a una finale resa dei conti. Non è solo l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso ma una vera ondata, nel suo disturbante eccesso: otto minuti e quarantasei secondi di tortura mortale inflitta all’ennesima vittima della violenza poliziesca negli Stati Uniti, circa un migliaio ogni anno, da quando almeno qualcuno, non le istituzioni, si è posto il problema di tenerne il conto. In seguito alle reazioni per un’altra uccisione, quella di Michael Brown nel 2014 a Ferguson, Missouri, il Washington Post e il Guardian hanno ricostruito i numeri della drammatica realtà elencando “the counted”, cioè la cifra dei morti nelle mani della polizia.

Nel suo libro “When Police Kills”, pubblicato nel 2017, il criminologo Franklin Zimring analizza quella statistica che si mantiene costante da anni, scoprendo che rappresenta circa il doppio di quella ufficiale, che non scende nonostante la criminalità violenta sia in declino, così come il numero delle vittime tra la polizia, e che la metà delle persone uccise dagli agenti non porta armi da fuoco o è disarmata. Le vittime fra gli afroamericani sono il doppio della loro percentuale sulla popolazione e il numero medio di quelle mille morti per ogni anno che risultano in condanne di poliziotti è pari a uno. Si tratta di “una crisi dei diritti civili che nessuno aveva visto all’orizzonte”.

481 le vittime per mano della polizia negli Stati Uniti al 19 giugno di quest’anno secondo il Washington Post

Michelle Alexander, già docente alla Stanford Law School, aveva peraltro illustrato nel suo “The New Jim Crown” come la violenza poliziesca non esaurisca la violenza dell’intero sistema repressivo penale che, anzi, opera nei confronti della popolazione di colore come una nuova forma di segregazione, un vero sistema di caste. Questo è il frutto di una politica criminale che dalla metà degli anni 90 ha portato al fenomeno dell’incarcerazione di massa, che ha colpito un’intera generazione di giovani afroamericani, i più esposti nelle loro comunità alla circolazione del crack, droga soggetta a una legislazione repressiva che aumentava le sanzioni in maniera esponenziale, riempiendo le galere per decenni. E ancora leggi che hanno imposto assurdi minimi inderogabili di pena, la stretta sui recidivi, automaticamente condannati all’ergastolo dopo tre condanne. La carcerazione si accompagna negli Stati Uniti alla perdita dei diritti sociali e politici che rende in concreto impossibile qualsiasi forma di risocializzazione. A ciò si aggiunge che alla condanna non si perviene nella quasi totalità dei casi (il 98% circa secondo la Corte Suprema), dopo un processo, ma contenendo il danno: una volta arrestati non resta che assoggettarsi alle proposte di patteggiamento degli aggressivi procuratori.

Prende così forma un sistema che produce un circuito che lega insieme razza, povertà, emarginazione sociale. Nella democrazia occidentale più evoluta e faro del capitalismo maturo riecheggia, nei fatti se non nelle concezioni, quell’identificazione tra povertà e crimine che l’Inghilterra vittoriana esprimeva nella definizione tout court di “classe criminale”. A contrastare questa emarginazione totale che fa perno sul sistema penale, non v’è più la contrapposta narrazione del secolo delle grandi ideologie, tra liberalismo e socialismo, in cui la sinistra insisteva sulla necessità della lotta alle cause del crimine e non solo al crimine. Ora si raccolgono consensi solo presentandosi come tougher on crime.

Le manifestazioni di protesta del movimento Black Lives Matter contro la violenza e la brutalità della polizia hanno raggiunto anche la Francia. A Parigi il 13 giugno si sono inginocchiati i sostenitori di Adama Traore, morto mentre era sotto la custodia della polizia francese nel 2016 – © Lewis Joly/Sipa/Ipa

Alla polizia è demandata in prima battuta l’opera di neutralizzazione del crimine, che richiede visibilità immediata, arresti e condanne carcerarie per garantire ordine e sicurezza. Niente di più facile che individuare l’obiettivo, prendere di mira quell’identificata classe criminale. Di qui gli stereotipi dietro i vari profiling delle persone pericolose, in cui le minoranze sono preda elettiva. La filosofia della tolleranza zero ha indotto prassi aggressive, inquinate dal pregiudizio razziale e perciò indirizzate alle persone di colore, come quella della perquisizione senza mandato “stop and frisk” della polizia di New York, dichiarata anche formalmente incostituzionale dalla magistratura. In questo modo le statistiche degli incontri fatali con la polizia e le loro distorsioni a scapito delle minoranze sono conseguenze necessitate.

Negli Stati Uniti riecheggia quell’identificazione tra povertà e crimine che l’Inghilterra vittoriana esprimeva nella definizione tout court di “classe criminale”

La mano pesante della repressione è anche stata sempre riservata ad altre forme considerate devianti, ai contestatori in piazza, ripudiati con altra emarginante stigmatizzazione come unamerican. Il 5 maggio è stato il 50esimo anniversario di un’altra strage nella storia americana, quella avvenuta alla Kent University in Ohio, quando quattro studenti furono uccisi e altri feriti gravemente dalla Guardia nazionale che fece fuoco su un assembramento di protesta contro l’escalation della guerra in corso in Vietnam. Qualche giorno dopo, alla Jackson State University, nel Mississippi, frequentata in gran parte da studenti di colore, due studenti neri furono uccisi dalla polizia. L’episodio è rimasto quasi sconosciuto, più banalmente ricondotto a una matrice razziale. Non è stato seguito dalla mobilitazione studentesca che accompagnò i morti della Kent State, né menzionato nella celebre canzone di Neil Young (Ohio). La docente di storia americana Jill Lepore ricorda tuttavia in un recente articolo sul New Yorker che anche per quei tempi il conto va rivisto. Fra i quattro morti alla Kent State e i due alla Jackson State, la polizia ad Augusta in Georgia uccise ancora sei neri disarmati sparando loro alle spalle, durante le reazioni di protesta scatenate dalla morte di un adolescente torturato in stato di arresto. E qualche anno prima la polizia aveva ucciso e ferito persone che protestavano per ragioni che andavano dalla violenza poliziesca alla guerra del Vietnam. Nessun responsabile di tutte queste morti è mai stato processato. Lepore nota come una rivisitazione di questi eventi in un’ampia prospettiva che lega la protesta di studenti bianchi e neri in un solo movimento per la giustizia razziale, per la libertà di pensiero e la pace, trainato dalla lotta per i diritti civili è stata dismessa come una fantasia da bianchi liberal. Ma, aggiunge, se proprio di fantasia si tratta, allora è anche quella di Martin Luther King.

Questa lettura si ripropone con forza oggi. Charles M. Blow, per quel che importa un nero americano, sul NYT invita a una visione più ampia anche del problema razziale, riconoscendo che occorre alzare la prospettiva: “Se vogliamo combattere l’ingiustizia razziale nelle piazze e non solo a livello di squadre di polizia, c’è bisogno di una nuova legge sui diritti civili, un Civil Rights Act del 2020”.

Ora le reazioni all’uccisione di George Floyd a Minneapolis si caratterizzano in modo evidente come proteste non confinate alla popolazione di colore. Ci sono i bianchi e non solo in solidarietà ai neri; non è più questione di mera empatia, ma di emersione di problemi strutturali che trasformano le istituzioni, anche quelle di garanzia, in strumenti non di tutela dei diritti fondamentali universali ma di protezione del diritto e della ricchezza dei pochi. È la negazione di ciò che ha rappresentato la stessa America per il mondo: non una nazione come nel Vecchio continente, ma un progetto costituzionale che, se condiviso, incarna per tutti l’american skin. Eppure taluno rischia ogni giorno di morire nonostante questo, come canta Bruce Springsteen nella bellissima ode in morte di Amadou Diallo, un nero ammazzato fra i tanti, New York 1999, sotto una pioggia di 41 pallottole.

Siamo al 19esimo anniversario del G8 di Genova e costretti a constatare che l’eco delle proteste americane può toccare ancora nervi scoperti

Questa volta tuttavia le proteste puntano in alto. Emerge una richiesta che non si ferma alla giustizia dei casi singoli, alla punizione nei confronti dei responsabili degli omicidi, perché finalmente consapevole delle caratteristiche strutturali del problema. È il sistema che genera la violenza non tanto la violenza che si erge a sistema. A Minneapolis opera un corpo di polizia considerato modello e all’avanguardia, ma non si è riusciti ad evitare l’ennesima espressione di brutalità. Di qui la preoccupante sfiducia che la polizia possa essere riformata e men che mai dal suo interno, come le riforme predisposte avevano immaginato, da ultimo nel progetto del 2015 sotto la presidenza Obama. Non sono cioè le restrizioni imposte agli agenti a fare la differenza, tanto più che esse possono essere violate, perché non si tratta di isolare le singole mele marce, sia pur numerose e a rischio di inquinare l’intero cesto. Il problema sono le regole d’ingaggio cioè che cosa si richiede alla polizia di fare: non è sufficiente porsi la domanda della violenza selettiva e dell’ingiustizia senza considerare l’ingiustizia e la diseguaglianza della società, che il sistema di repressione e controllo penale riproduce e consolida.

Fa riflettere la radicalità delle proposte, provenienti non dalla feccia degli estremisti Antifa, per mutuare il linguaggio presidenziale, dove Antifa sta per antifascisti, ma autorevolmente espresse da opinionisti e intellettuali sui media mainstream. Si chiede di abolire, letteralmente, i corpi di polizia, di tagliare i fondi, in favore di altri settori e servizi. Si richiedono cioè non riforme di facciata o le solite riforme a costo zero, ma le vere riforme che spostano potere nella società. Che il richiamo alla rigenerazione del sistema contenga un nucleo serio e non di provocazione transitoria lo si deduce dalle riforme già giudicate improrogabili da parte di entrambi gli schieramenti politici. È un dato obiettivo che, al di là della riluttanza culturale, politica e ideologica a riconoscere la responsabilità dei poliziotti che investe l’intero sistema a partire dai procuratori (un editoriale del New York Times imputa a loro “codardia”), fino ai giudici e alle giurie popolari (difficile sottrarsi alla suggestione del carico della decisione di usare la forza da parte del poliziotto nel corso dell’azione istituzionale), si tratta di mettere in discussione barriere che rendono impenetrabile il corpo di polizia assicurando trasparenza (non a caso molti degli agenti coinvolti hanno già alle spalle segnalazioni disciplinari ) ovvero li proteggono da azioni risarcitorie sul piano civile. È stata la Corte Suprema nel 1967 (in un caso di violenze contro un gruppo di manifestanti per i diritti civili in Mississippi) a creare la teoria della qualified immunity, un privilegio che esenta da responsabilità il poliziotto a meno che la vittima dimostri che la violazione dei suoi diritti sia “chiaramente stabilita”, ciò che richiede in pratica un precedente giudiziario specifico. Così da condizionata (qualified) perché legata all’adempimento di compiti istituzionali, si passa a un’immunità senza limiti. Nessuna riforma pur incisiva è in grado di mettere in discussione il ruolo di controllo sociale affidato alla sola forza della polizia, anziché ad altre istituzioni della società.

Il confronto a esito letale con la polizia deriva sovente dalla gestione della devianza anche ai livelli minori o del disadattamento, o dello stesso disturbo mentale da parte di un corpo di cui si è accentuata negli anni la militarizzazione anche a livello di prassi operative e di armamento (l’impiego delle squadre speciali SWAT è diventato di ordinaria amministrazione). George Floyd, in congedo dal lavoro per il Covid-19 ed egli stesso positivo, stava per essere arrestato per una supposta truffa da 20 dollari, così come Eric Garner, ucciso a New York nel 2014 con una presa al collo a seguito di un fermo per la vendita di sigarette di contrabbando.

50 anni fa, il 5 maggio, alla Kent University in Ohio, quattro studenti furono uccisi e altri feriti gravemente dalla Guardia nazionale che fece fuoco su un assembramento di protesta contro l’escalation della guerra in corso in Vietnam

La protesta che scuote l’America ha avuto forte impatto negli altri Paesi e segnatamente in Europa. Vediamolo da oltre oceano. In un articolo del NYT si evidenzia come le proteste americane abbiano ispirato un nuovo scrutinio sull’operato delle polizie europee, così nelle piazze gli attivisti hanno richiamato gli abusi polizieschi specie in danno delle minoranze, quelle più bersagliate dai controlli. “Fino a pochi giorni fa c’era un tabù incredibile a parlare di questo, davvero allucinante”, dice la direttrice di Human Rights Watch in Francia, una nazione ove la polizia ha una lunga serie di episodi di violenza letale, in gran parte impuniti. La stessa reazione è riportata nelle manifestazioni in Inghilterra, dove si riconosce che il profiling razzista orienta l’azione della polizia e in Germania, dove l’immigrazione ha acuito i problemi con casi recenti di morti di richiedenti asilo durante la custodia della polizia.

L’Italia non compare in questa rassegna e non a caso, pur essendovi stata mobilitazione nelle piazze. Il tabù non è infatti superato, l’autocritica e l’ammissione del pericolo dell’inquinamento razzista in casa nostra paiono trattenute.

Dell’America si enfatizza la questione razziale, richiamando la storia di quella società, ma il marcare le differenze serve da scudo per non interrogarsi qui, guardare le cose come sono, dopo aver fatto realmente i conti con il passato. Quest’atteggiamento ipocrita oscura il più significativo messaggio delle proteste americane, diretto alla denuncia della questione razziale come aspetto della coincidente questione sociale e a riconoscere consapevolmente che la violenza che il sistema richiede alla polizia si scarica contro chi versa in condizioni di emarginazione e diseguaglianza e contro chi la mette in discussione. Però gli Stati Uniti sembrano essere d’altra parte, con un ritardo di due decenni, un modello ancora attuale per il nostro legislatore, che ha inasprito sanzioni e limitato la discrezionalità giudiziale per fatti di modesto valore, introdotto sbarramenti per misure alternative e benefici carcerari sotto lo slogan del buttare via la chiave. Basta guardare chi finisce e rimane in carcere. I soliti noti e disperati, ben oltre la capienza e in spregio alle condanne in sede europea.

Alcuni agenti di polizia nelle strade di Genova nel luglio 2001, durante il G8. Per le violenze della scuola Diaz la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia nell’aprile 2015, affermando che la polizia si era rifiutata “impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura” – © Gerace/Fotogramma

Siamo al 19esimo anniversario del G8 di Genova e costretti a constatare che l’eco delle proteste americane può toccare ancora nervi scoperti. In tempi di pandemia e di appelli alla coesione nazionale s’immagina come non siano benvenute riflessioni critiche sul ruolo e la gestione delle forze di polizia e il loro rapporto con i cittadini, così come sulle caratteristiche del sistema di repressione penale, attraverso cui la brutalità delle diseguaglianze sociali si consolida e accentua. È un aspetto molto più serio e preoccupante delle più dibattute inefficienze e distorsioni che si imputano al sistema, per non parlare della propaganda sulla “giustizia giusta”. Curioso che per molti la panacea risolutiva starebbe incredibilmente nella necessità di separazione delle carriere e nell’abolizione del principio di legalità, qui dimenticando come i procuratori nostrani di cui si chiede in sostanza il controllo politico sono pallida larva in confronto agli onnipotenti procuratori americani che quel controllo hanno, non a caso imbelli quando si tratta di perseguire poliziotti.

Eppure anche dopo gli abusi e le torture del G8 i casi di morti per mano della polizia sono stati non sporadici ed emblematici: Aldrovandi, Uva, Magherini, Cucchi sono nomi che evocano tragiche vicende che, al di là degli esiti dei casi giudiziari denotano, ciascuno nella sua peculiarità, comportamenti in spregio dei diritti umani, ma spesso conformi a protocolli e regole d’ingaggio non discusse. Sono storie di chiusura e omertà di corpo, senza riscontro di controlli e sanzioni interne, ma di copertura solidale, dei commilitoni così come della pletora di sindacati, quelli che non a caso hanno avuto voce determinante -a porte chiuse- dinanzi al Parlamento cui è stata dettata una legge contro la tortura che non rispetta le convenzioni internazionali nell’asserita esigenza di non imbrigliare troppo l’agire del poliziotto. Le proteste americane non hanno richiamato alle responsabilità politiche che fin qui hanno bloccato ogni possibile ipotesi di riforma anche di mero maquillage.

Anche dopo gli abusi e le torture del G8 i casi di morti in Italia per mano della polizia sono stati non sporadici ed emblematici: Aldrovandi, Uva, Magherini, Cucchi

L’anno scorso a Genova la polizia ha caricato una manifestazione di protesta contro un comizio autorizzato di circa 20 fascisti dichiarati. La carica avviene con una tecnica che richiama la pericolosa tattica del kettling, che non lascia vie di fuga ai manifestanti. Stefano Origone, giornalista di Repubblica, in mezzo alla folla, viene selvaggiamente picchiato da agenti che si accaniscono su di lui a terra finché un funzionario ferma l’azione, per il solo fatto di averlo riconosciuto come giornalista. Altri presenti subiscono violenza ma si tratta di “veri” manifestanti. In questo caso, dice anche la Procura archiviando il caso, gli agenti sono scusati perché pensavano che le persone stessero per aiutare un altro manifestante che volevano arrestare. A giudicare dai fatti, abbiamo ancora parecchi problemi. 

Perdura la reticenza dei governi sulle informazioni richieste dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’esecuzione delle sentenze sui fatti della Diaz del 2001 è ancora pendente ed è sotto stretta supervisione del Comitato dei ministri del Consiglio europeo. La Corte si rammaricava, tra l’altro, di non essere stata informata sui procedimenti disciplinari nei confronti dei condannati, ricordando che la Cedu richiede la loro destituzione in caso di condanna e la sospensione durante il giudizio. Si è preferito non rispondere e si capisce perché. Il governo attuale ha fornito le sue ultime indicazioni nel dicembre 2019. Avrebbe dovuto svelare finalmente gli esiti delle procedure e che i condannati erano stati reintegrati e posti in posizioni di rilievo apicale. Non l’ha fatto. È stato dato altro termine fino al 30 giugno 2020. Così si è anche taciuto sull’altra domanda relativa alla assenza di sistemi d’identificazione degli agenti, cosa che ha garantito l’impunità di molti. Certo si è accennato a proposte di riforma (ma non che s’ipotizzavano solo codici di reparto). Ora si dà il caso che il ministro che aveva prospettato la riforma abbia di recente tuonato contro l’inerzia delle autorità egiziane nel collaborare all’individuazione degli assassini di Giulio Regeni, tuttora coperti. L’invettiva muove da un pulpito screditato e in un contesto di rapporti di forza dominati da interessi pesanti. Se s’individuassero i torturatori, quelle autorità non dovrebbero limitarsi a farli processare in Italia (ci sono voluti anni per far eseguire addirittura ad un Paese Ue la condanna per i morti della Thyssen) ma dovrebbero processarli loro stesse, anche per le torture ordinariamente praticate ad altri e dovrebbero liberare lo studente Patrick Zaki pretestuosamente ancora in carcere.

Il ministro che parla agli altri è tuttavia quello che ha consentito la definitiva violazione delle Convenzioni con la reintegrazione in posizioni apicali dei condannati del G8. È lo stesso ministro cui si devono gli accordi con la Libia che hanno consentito la violazione in massa di diritti umani nei campi di concentramento dei profughi, denunciata dagli organismi internazionali. È lo stesso ministro dei Daspo urbani, ancora prigioniero dell’ottica della tolleranza zero, per voler fare gli americani ancora un po’. Si può fare di peggio ed è stato puntualmente fatto con i decreti sicurezza, ancora in pieno vigore, ma certo le forze progressiste sono imbrigliate nella rincorsa alla muscolarità dell’intervento repressivo, avendo abbandonato ogni altro piano per contrastare il disagio ove si annida anche il crimine urbano. È il terreno in cui s’inserisce l’operare estremo degli uomini in divisa che non possono fare altro che quello per cui sono addestrati ed equipaggiati, l’uso della forza con il rischio di esiti fatali.
Sì, non è giusto prendersela solo con loro: questa volta, come insegna l’America, bisogna ripensare il sistema.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova

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