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Crisi climatica / Attualità

Crisi climatica e ingiustizia fiscale vanno insieme. Una via per la giusta transizione

© Tax justice network

In vista della Cop30 di Belém, in Brasile, che inizia il 10 novembre, i movimenti per il clima e la giustizia fiscale si danno appuntamento a Campinas, sempre in Brasile, per tenere insieme due emergenze troppe volte tenute distinte. “Il divario finanziario in materia di clima è in realtà un divario di sovranità fiscale. Ci sono già migliaia di miliardi disponibili ma i governi sono stati privati del potere di recuperarli”, spiegano Bemnet Agata e Franziska Mager, ricercatrici di Tax justice network

I movimenti per il clima e la giustizia fiscale si stanno preparando alla Cop30 in programma a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre di quest’anno. Una tappa di questo avvicinamento è la conferenza “A climate for change: towards just taxation for climate finance organizzata il 13 e 14 ottobre all’Università brasiliana di Campinas. Un momento molto importante che fa in qualche modo dialogare appunto Belém con Nairobi, sede strategica delle negoziazioni in corso su una convenzione a tema tasse a livello di Nazioni Unite.

“A Belém, i governi discuteranno su come mobilitare migliaia di miliardi per la transizione climatica. A Nairobi, decideranno chi stabilisce le regole fiscali che determinano da dove proviene quel denaro e chi lo controlla. Collegare le due cose è fondamentale: senza giustizia fiscale, il finanziamento per il clima rimarrà inaffidabile, iniquo e antidemocratico. Senza giustizia climatica, il gettito fiscale rimarrà mal indirizzato, iniquo e distaccato dalle persone e dalle comunità che dovrebbe servire. Non si tratta di lotte parallele, ma interdipendenti, che si danno significato e forza a vicenda”.

A evidenziarlo sono Bemnet Agata e Franziska Mager, ricercatrici di Tax justice network (Tjn), rete internazionale indipendente che da più di vent’anni fa ricerca, analisi, e advocacy relative proprio alle questioni fiscali globali. Agata e Mager spiegano in questa doppia intervista che riformare il fisco per multinazionali e grandi detentori di patrimoni assicurerebbe il fabbisogno finanziario della maggior parte dei Paesi in materia di clima e garantirebbe persino un surplus miliardario da destinare ad altri servizi pubblici essenziali. A causa della debole sovranità fiscale dei singoli Stati, piegati agli interessi particolari dei più ricchi, questo potenziale resta fuori portata.

Mentre la crisi climatica accelera, i fondi promessi restano insufficienti. Che cosa ostacola il pieno rispetto degli impegni finanziari presi dalla comunità internazionale?
BA Secondo la Conferenza dell’Onu sul commercio e lo sviluppo, entro il 2030 i Paesi a basso e medio reddito avranno bisogno di 2,3-2,5mila miliardi di dollari all’anno per rimanere in linea con gli obiettivi climatici, circa quattro volte gli attuali livelli di investimento. I leader internazionali insistono nel dire che non ci sono soldi eppure una ricerca di Tax justice network alla quale ho contribuito conferma che 2,6mila miliardi di dollari potrebbero essere raccolti ogni anno tassando la ricchezza estrema e contrastando l’abuso fiscale delle multinazionali. Una cifra sufficiente per colmare la maggior parte del deficit finanziario globale per il clima e lasciare ancora miliardi per la sanità, l’istruzione e altri servizi fondamentali. Quello che vogliamo dimostrare è che il divario finanziario in materia di clima è in realtà un divario di sovranità fiscale. Ci sono già migliaia di miliardi disponibili ma i governi sono stati privati del potere di recuperarli, portando a quella che chiamiamo “scarsità artificiale”.

Un recente report di Tax justice network mostra che i Paesi perdono circa 500 miliardi di dollari ogni anno a causa dell’abuso fiscale transfrontaliero. Come si creano queste falle?
BA Confermo, le cifre sono sbalorditive ed è chiaro che non si tratta di un caso. Il sistema è stato progettato per funzionare proprio in questo modo. Avviene principalmente in due modi. Primo: le multinazionali trasferiscono artificialmente i profitti in Paesi con giurisdizioni a bassa tassazione -i cosiddetti paradisi fiscali- grazie a trucchi di transfer pricing, pagamenti di royalties o detrazioni di interessi. Il secondo è legato a strumenti di segretezza, come “shell companies”trust fittizi, per nascondere la proprietà dei beni e altre somme di denaro. Requisiti di trasparenza poco rigorosi rendono facile omettere chi controlla in ultima analisi la ricchezza, tanto che nella maggior parte dei casi non sappiamo nemmeno chi siano i proprietari.

E perché i governi non agiscono? La sovranità politica è stata erosa al punto da rendere impossibile qualsiasi iniziativa o il silenzio è una scelta?
BA Nella maggior parte dei casi i governi sono pienamente consapevoli che queste scappatoie consentono il perpetuarsi di pratiche dannose. Non agiscono per svariati motivi, tra cui il controllo delle aziende ad esempio. Le grandi multinazionali e le lobby industriali -dai giganti dei combustibili fossili ai conglomerati agroalimentari- hanno un’influenza sproporzionata sull’agenda politica: finanziano campagne elettorali, esercitano pressioni sui negoziatori e fanno persino parte dei comitati consultivi che definiscono le norme che dovrebbero invece regolamentarle. Un altro motivo poi sono gli incentivi a breve termine. I politici tendono a dare priorità agli indicatori di crescita economica e al ciclo elettorale, quindi agire in questo senso può essere dipinto come anti-imprenditoriale, anche quando il costo a lungo termine è il collasso ecologico e sociale. Un’altra ragione ancora va trovata poi nello squilibrio nella governance globale. Molte regole su commercio, finanza o clima sono decise in contesti dominati dai Paesi ricchi e dalle grandi imprese del cosiddetto Nord globale. Questo vincola i Paesi meno potenti a regole che non hanno contribuito a scrivere e li rende riluttanti a sfidare un sistema che favorisce gli attori dominanti. Per questo gli attivisti chiedono più controllo democratico, più trasparenza e di spostare i negoziati verso sedi più rappresentative come l’Onu.

Perché le politiche non possono essere attuate a livello nazionale?
BA Quando parliamo di questo “anello mancante” tra giustizia fiscale e giustizia climatica, intendiamo dire che non è possibile risolvere la crisi climatica senza riformare il modo in cui raccogliamo e distribuiamo il denaro pubblico. Ad oggi anche se un governo agisse con coraggio, ad esempio tassando le multinazionali in modo corretto, sufficiente e adeguato, le aziende potrebbero semplicemente trasferire i loro profitti altrove. Molti governi si sentono costretti a offrire incentivi fiscali o a ridurre le aliquote per attirare gli investimenti, alimentando così una corsa al ribasso fiscale. Ecco perché l’idea di ripristinare la sovranità fiscale è così importante: i Paesi hanno bisogno del potere di decidere chi tassare, a quali condizioni e nell’interesse di chi, hanno bisogno di regole che li proteggano, e ciò è possibile solo attraverso un’azione collettiva. 

Nel novembre 2023 l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato una risoluzione -frutto di un percorso guidato dalla Nigeria- per sviluppare la bozza di una convenzione fiscale globale. Mager, lei pensa che questo sia il contesto giusto per affrontare la questione climatica?
FM Fino a ora le regole o gli standard attualmente in vigore sono stati in qualche modo dettati dall’Ocse anche se in maniera non ufficiale. Questo lascia i quattro quinti dei governi del mondo completamente fuori dai negoziati. Il fatto che ci sia uno spostamento verso l’Onu, anche se non è stato raggiunto un consenso totale in questa fase iniziale (Australia, Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti si sono rifiutati di firmare lo scorso agosto, ndr), è una cosa davvero importante perché dimostra ai Paesi più piccoli che, agendo insieme, possono superare le grandi potenze occidentali. Si apre un’opportunità straordinaria per elevare in modo significativo le ambizioni attuali, grazie all’influenza esercitata dalle organizzazioni non profit e dall’impegno dei governi progressisti.

Una proposta che verrà presentata alla Cop30 dalla “coalizione dei volenterosi” (tra cui Francia, Spagna e Kenya) è quella di tassare l’aviazione privata. Crede che questo potrebbe essere un modo efficace per affrontare le responsabilità individuali?
FM È un’iniziativa simbolica ma non per questo inutile. C’è una responsabilità individuale che deve riflettersi nel sistema fiscale, considerando che lo 0,1% più ricco inquina sproporzionatamente di più del resto della popolazione. Anche se il contributo dei jet privati alle emissioni totali non è enorme, non è neanche trascurabile e soprattutto tassarlo invierebbe un segnale forte: le regole possono cambiare e devono includere anche chi sta in cima alla “scala” economica. Se tassare i jet diventa socialmente accettabile, può creare consenso per tassare i profitti da combustibili fossili o le imprese altamente inquinanti. È una mossa strategica sul piano politico anche se insufficiente da sola per colmare il divario climatico, sia in termini di emissioni che di entrate.

BA Secondo la Global solidarity levies task force (un’iniziativa lanciata nel 2023 dai presidenti di Barbados, Kenya e Francia, volta a sviluppare e promuovere imposte internazionali progressive sulle industrie inquinanti, ndr), una tassa su biglietti e carburante dei jet privati potrebbe generare fino a 78 miliardi di euro l’anno per finanziare politiche legate al clima senza creare nuovo debito. Questa coalizione dimostra che alcuni governi sono pronti a scelte coraggiose che legano tassazione e giustizia climatica, riconoscendo che emissioni estreme e ricchezza estrema non possono restare immuni. 

Agata, nel suo articolo lei parla di una “trappola del debito che consuma gran parte delle entrate del Sud del mondo”. Può spiegare che cosa intende?
BA In questo caso quando parliamo di debito climatico non intendiamo il denaro preso in prestito dai Paesi africani ma ciò che i Paesi occidentali devono per il loro ruolo nella crisi climatica. Per oltre 150 anni le nazioni industrializzate hanno accumulato ricchezza bruciando combustibili fossili, responsabili della maggior parte delle emissioni storiche. Oggi Stati Uniti ed Europa da soli rappresentano quasi la metà di queste emissioni, mentre l’Africa appena il 4%. Allo stesso tempo è una delle regioni più colpite: stiamo assistendo a siccità estreme nel Corno d’Africa, desertificazione nel Sahel, cicloni in Mozambico e Madagascar. Catastrofi che distruggono vite, mezzi di sussistenza e infrastrutture, trascinando i Paesi ulteriormente nella povertà. Durante la Cop15 i Paesi ad alto reddito si erano impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 per finanziare azioni climatiche nel Sud del mondo. Secondo Actionaid, però, all’Africa spetterebbero 36mila miliardi di dollari ma oggi ne riceve solo una piccola parte, spesso sotto forma di prestiti anziché di sovvenzioni, aggravando il peso del debito. Questo ci ricorda allora che la crisi climatica non è solo una questione ambientale ma riguarda anche la disuguaglianza storica, lo sfruttamento e la necessità della giustizia. Il linguaggio è importante in questo caso. La finanza climatica dovrebbe essere considerata una forma di compensazione e non di assistenza.

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