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Finanza / Opinioni

Criptovalute e colossi esentasse del web: i “pifferai magici” che popolano la finanza

© Elena Mozhvilo - Unsplash

L’Italia non ha ancora riscosso un euro dalle società big tech. La progressività fiscale resta negletta ed è sempre più evidente la smaterializzazione dei processi economici. Intanto esplode il valore di Bitcoin: quella delle criptovalute, però, non è “democratizzazione” monetaria ma ideologia del casinò. L’analisi di Alessandro Volpi

Una storia poco edificante in materia di fisco. In Italia il 40% dei contribuenti paga il 100% del carico fiscale, senza considerare i dati della colossale evasione. È evidente che si tratta di un sistema che non può reggere, soprattutto ora in piena crisi pandemica. C’è però chi, di fatto, continua a non pagare niente. È eloquente a riguardo la vicenda della digital tax, che dovrebbe colpire i colossi del web.

Nel nostro Paese si è cominciato a discutere, in sede parlamentare, di tale imposta dopo la crisi del 2011 ma fino alla legge di Bilancio del 2018 una simile discussione non ha mai partorito alcun risultato. A pesare sono sempre state le minacce americane di applicare dazi ritorsivi nei confronti di Paesi che adottassero un’imposta contro i giganti del web e le altrettanto forti intimidazioni, provenienti dagli stessi colossi, di vere e proprie guerre legali. Del resto, quegli stessi gruppi hanno negli anni intentato ricorsi contro qualsiasi ipotesi di far pagare loro imposte che, sempre a loro singolare giudizio, non sarebbero dovute. Intanto, solo per dare un dato, in 10 anni le prime sei compagnie big tech Usa hanno “eluso” il fisco per oltre 90 miliardi di euro.

Come accennato, nel dicembre del 2018 l’Italia si è dotata comunque di una cosiddetta web tax, con un aliquota del 3% sulle aziende con il fatturato superiore ai 750 milioni di euro; un po’ poco, verrebbe da dire, anche se in realtà continuano a esistere in Europa Paesi, come la “frugale” Olanda, che si guardano bene dall’applicare una qualsiasi aliquota in tal senso. Tuttavia, nonostante la natura molto contenuta dell’aliquota italiana, a oggi quell’imposta digitale non è ancora stata applicata e l’ultima proroga dei termini per la riscossione è stata spostata al prossimo 30 giugno.

In altre parole, l’Agenzia delle entrate italiana non ha ancora riscosso un euro dai colossi del web. Ora sembra che il clima sia cambiato; gli Stati Uniti propongono una minimum tax globale con l’aliquota del 21%, ancora bassa ma ben lontana dal 3% italiano, sia pur su basi diverse. L’Europa, la grande assente su questo tema cruciale, dovrebbe far sentire la propria voce e proporre in sede G20 un’aliquota più consistente per restituire dignità alla progressività fiscale che è stata troppo a lungo negletta. Si tratta di un’esigenza resa ancora più urgente dal sempre più evidente proliferare di “pifferai magici” che popolano il ben poco fatato mondo della finanza.

Mentre sta per quotarsi in Borsa la nuova piattaforma di scambi di criptovalute Coinbase, il Bitcoin ha superato quota 62mila dollari, raggiungendo un valore 10 volte più alto di quello di inizio 2020. Si tratta di un nuovo record che dimostra la sempre più evidente smaterializzazione dei processi economici. Mentre il mondo della produzione reale è in piena crisi e si evita di tassare i colossi big tech, una “moneta” che copre una parte minima degli scambi internazionali diventa un bene preziosissimo. In termini ancora più semplici, i mercati finanziari scelgono uno strumento largamente inutilizzato, che non ha una funzione reale, al di là di alcuni “sponsor” influenti come Elon Musk, per destinarvi parti rilevantissime delle proprie risorse.

Certo il futuro sarà digitale, certo anche le banche centrali stanno affrontando il tema delle valute digitali, ma davvero è concepibile ora un prezzo così stellare per un “bene” che non serve quasi a nulla? La vicenda dei Bitcoin è una delle dimostrazioni più palesi della natura assolutamente speculativa delle nuove ingegnerie finanziarie e la presunta “democratizzazione” monetaria operata dalle criptovalute è soltanto l’ideologia del casinò, a cui, come ricordato, continuano a non venire applicate imposte vere.

Se i Bitcoin sono un nuovo approdo del turbocapitalismo, mascherato sotto le vesti della fine delle banche centrali, allora occorre fare presto per separare l’idea stessa di mercato da quella di capitalismo, a cominciare proprio dalle regole fiscali.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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