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Economia / Opinioni

Crescita del Pil senza crescita delle retribuzioni: una ricetta ingiusta e dannosa

In Italia circa 10 milioni di persone sono private di fatto della possibilità di un reale consumo e un terzo dei pensionati dispone di un’indennità lorda inferiore ai 12mila euro all’anno. Gli ultimi dati Istat e Inps confermano l’urgenza di una vera politica dei redditi. L’attuale sistema costa e genera tantissimi poveri. L’analisi di Alessandro Volpi

I numeri contenuti in alcuni rapporti recenti fanno emergere una fotografia del quadro italiano da cui è facile comprendere che i bassi livelli di reddito della popolazione stanno producendo danni molto pesanti. In primo luogo si sta contraendo il mercato interno per gran parte dei cittadini. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Istat, nel nostro Paese ci sono poco meno di sei milioni di poveri assoluti, che sarebbero oltre sette senza il reddito di cittadinanza.

C’è poi oltre un milione di lavoratori con un salario orario di 8,41 euro l’ora e quasi quattro milioni che percepiscono 12mila euro l’anno. In sostanza, circa 10 milioni di cittadini sono privati della possibilità di un reale consumo. Bisogna poi considerare che ci sono oltre 14 milioni di over 65, nella stragrande maggioranza dei casi in possesso di una pensione attorno ai mille euro mensili. Infine sette milioni di giovani di età compresa tra 18 e 34 anni vivono in casa con i genitori. Si tratta di una vasta platea che dispone comunque di redditi contenuti incapaci di sostenere un reale mercato interno. Ma senza mercato interno è davvero difficile qualsiasi ripresa economica.

Il rapporto Inps 2022 certifica una spesa per le pensioni pari a 312 miliardi di euro per circa 20 milioni di trattamenti pensionistici. I pensionati e le pensionate sono circa 16 milioni; quindi esiste una percentuale di titolari di pensione che riceve una integrazione alla propria pensione. Rispetto a questo dato molto generale sono possibili alcune considerazioni.

Un terzo dei titolari di pensione dispone di una indennità lorda inferiore ai 12mila euro annui. Inoltre per chi è andato in pensione dopo il 2017, la pensione è pari al 75% dell’ultimo stipendio. Si tratta di un tasso di sostituzione tra i più alti in Europa che testimonia il fatto che le basse pensioni derivino dalle basse retribuzioni. Le donne che sono numericamente superiori agli uomini percepiscono solo il 44% dei trattamenti pensionistici e hanno un’indennità in media inferiore di 6mila euro. E ancora: sul totale della spesa pensionistica, il 56% dipende dalle pensioni di anzianità e da quelle anticipate. L’attuale numero di lavoratori e le proiezioni demografiche inducono la stima di una riduzione del patrimonio netto dell’Inps di poco meno di 100 miliardi di euro.

In estrema sintesi, solo aumentando le retribuzioni dei lavoratori è possibile rendere sostenibile il sistema pensionistico che fatica a reggere le uscite anticipate. Anche da questo punto di vista occorre una vera politica dei redditi perché l’attuale sistema costa molto e genera troppi poveri. Una crescita del Prodotto interno lordo senza una crescita delle retribuzioni è ingiusta e dannosa. Come per il mercato interno, servono molti più occupati con retribuzioni vere, abbinate a una riforma del sistema fiscale e dei modelli contributivi. La riforma delle pensioni non può essere considerata come un tema a sé, neppure affrontando il nodo delle cosiddette “pensioni d’oro”: in Italia i pensionati con trattamenti superiori ai 5mila euro lordi al mese sono 90mila e ricevono pensioni per sette miliardi di euro; numeri che, al di là della discussione “etica”, non incidono sulla struttura del sistema.

Una piccola proposta per provare ad incidere almeno parzialmente può legarsi alla destinazione di alcune voci fiscali. Nei primi sei mesi del 2022 le entrate in termini di Iva derivanti dall’importazione di beni hanno realizzato un extra-gettito rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente di 3,3 miliardi. Nel medesimo arco temporale le entrate dello Stato da giochi e lotterie sono state pari a sei miliardi, 1,1 miliardi in più dell’anno passato. Sommando queste entrate ed estendendole su un intero anno si metterebbero insieme quasi 20 miliardi di euro, più che sufficienti per garantire la quota pubblica di una credibile indicizzazione dei salari e delle pensioni.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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