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Cultura e scienza / Attualità

I creativi che illuminano le città con cinema, musica e teatro

I grandi centri urbani si trasformano in vetrine, separando i cittadini da spazi comuni di cultura e partecipazione. Un movimento di artisti-attivisti, in tutta Europa, ha un’altra idea di “pubblico”. La storia del “laboratorio” Lume di Milano

Tratto da Altreconomia 200 — Gennaio 2018

Nel loro manifesto c’è un intellettuale italiano, Primo Moroni, e l’idea del luogo come di uno spazio dove fare ricerca, non fine a se stessa, ma autoprodotta. Un posto dove far saltare lo schema dell’avversario, lontano dall’assioma del “tutto è merce”. Sono i ragazzi di Lume, il Laboratorio universitario metropolitano nato due anni fa in uno stabile bramantino in vicolo Santa Caterina, a Milano, là dove il Renzo del Manzoni sarebbe stato arrestato durante i tumulti del pane. Sono loro, in gran parte artisti, musicisti, attori, ma soprattutto studenti universitari, che hanno scelto uno scritto di Moroni per dare vita ad una realtà un po’ anomala. Un centro sociale che fa politica con mostre fotografiche, jam session, pièces teatrali, assoli al pianoforte e moltissimo jazz. Dove non si rinuncia alle tradizionali assemblee, ma si propone anche una programmazione ragionata.

La maggior parte dei suoi frequentatori, quelli che oggi vengono definiti come attivisti artistici, provengono dalle scuole di cinema, musica e di teatro, dai conservatori e dalle accademie delle belle arti. Molti di loro cercavano uno spazio dove provare, ma soprattutto avevano bisogno di un pubblico disposto sempre ad ascoltarli. Il primo atto fondativo di Lume non è stato un dibattito, ma un concerto jazz in una piccola cripta scoperta sotto il pavimento dello stabile che avevano appena occupato.

Il primo sgombero è arrivato nel luglio 2017, ma l’occupazione è proseguita qualche mese più tardi in un altro spazio, il Cinema Orchidea, chiuso dal 2009. Poi, dopo una settimana, è arrivata la promessa da parte delle istituzioni di riaprire la sala cinematografica alla città. E oggi, da novembre, Lume si è trasferito in un altro luogo abbandonato, l’ex magazzino del verde pubblico dei Bastioni di Porta Venezia, di proprietà del Comune di Milano, aperto per l’ultima volta nel 1920, salvo un breve utilizzo nel 2016 in occasione di Porta Venezia In Design. Negli anni il Laboratorio universitario metropolitano, come racconta Isabella Cortese, una delle sue fondatrici, grafica e designer milanese, è diventato un punto di riferimento, accessibile a tutti, dove gran parte degli spettacoli sono a offerta libera o a prezzi molto popolari. Ogni progetto è autofinanziato grazie a una cassa comune: ogni artista, noto o in erba, non importa, viene pagato e vengono favorite le licenze “Creative commons” che permettono agli autori di gestire i diritti delle proprie opere.

Da Vinicio Capossela a Valentina Picello, a lungo in scena al Piccolo Teatro di Milano, alla cantante jazz Camilla Battaglia, che vive a New York, a tutti i ragazzi che si esibiscono sul palco del Lume: qui ogni artista viene incoraggiato a ripensare le proprie creazioni in base anche ai temi politici più urgenti del momento. “Non volevamo creare un circolo di creativi fine a se stesso -racconta Isabella-, ma un luogo dove portare avanti non solo un modello di spazio diverso, ma soprattutto un’idea di cultura orizzontale ed inclusiva basata sul valore politico e sociale della cooperazione artistica. Un’idea da contrapporre al processo di vetrinizzazione che sta caratterizzando i nostri grandi centri urbani, dove la cultura non è vista come un bene comune, ma come un mezzo per attrarre finanziatori e turismo e costruire la cartolina estetica della città perfetta”.

In un paio di anni i ragazzi di Lume hanno riportato i propri coetanei a teatro, hanno rispolverato il jazz, prima ascoltato solo da una nicchia, ma soprattutto hanno avvicinato l’arte alla politica. “Parlare di cultura come bene comune -scrivono i ragazzi nella loro pagina Facebook- vuol dire doversi confrontare con una molteplicità di relazioni e bisogni, fatta talvolta di esclusi, di sfruttati e di repressi, fatta spesso di informalità precaria e di spazi di cultura popolare. Fatta anche da Lume e da tutti gli spazi che in Italia combattono la battaglia dei beni comuni”. Il riferimento è ad altre realtà che, a loro modo, operano nello stesso settore, quello dell’industria della cultura e della creatività, che nel nostro Paese ha raggiunto nel 2015 un valore economico complessivo di 47,9 miliardi di euro, con un tasso di crescita del 2,4% e rappresenta il terzo settore per occupazione.

A dirlo sono i dati diffusi dallo studio “Italia Creativa” realizzato da Ernst&Young, che però non tengono conto di alcune esperienze che, semplicemente, per il mercato non esistono. Realtà come Cavallerizza 14.45 (cavallerizzareale.org): un’assemblea di cittadini torinesi, lavoratori dello spettacolo e della cultura, studenti e associazioni che nel 2014 hanno occupato uno spazio, la Cavallerizza Reale, che stava per essere svenduto dal Comune ai privati. Un luogo che segue lo stesso modello di Lume a Milano, o dell’ex Asilo Filangeri di Napoli (exasilofilangieri.it), un altro centro di produzione indipendente, o del Maam, il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Roma, uno spazio meticcio ed espositivo, nato nel 2012 durante un’occupazione abitativa all’interno dell’ex fabbrica Fiorucci. O ancora del Sale Docks di Venezia: un posto dove l’arte contemporanea è sia oggetto di riflessione che di azione politica. È occupato dal 2007, ma fino al 2019 i suoi frequentatori sono riusciti ad ottenere l’assegnazione temporanea nel sestiere Dorsoduro. Sono tutti esempi di occupazioni, sparse per lo Stivale -le più note sono almeno una ventina-, dove si portano avanti modelli di autogestione degli spazi e dove l’arte e la cultura entrano in relazione con il contesto sociale.

“Gli abitanti hanno perso la loro identità di cittadini e sono diventati dei consumatori, o nella migliore delle ipotesi degli spettatori”, Marcella Camponogara

Una serie di esperienze che si pongono in contrasto con il processo di cultura estetica della realtà urbana, visibile in città come Venezia, Firenze o Bologna, che sono diventate -come denunciano i giovani di Lume- un museo a cielo aperto per rispondere al diktat di un turismo sempre più di massa che consapevole. “In generale la sostanziale perdita di uno strumento capace di regolare e progettare l’intera città ha dato vita negli ultimi anni a uno sviluppo frammentario; la città si sta dividendo sempre più in enclave, in quartieri o arcipelaghi -sottolinea Marcella Camponogara, architetta e dottoranda del Politecnico di Milano-. Così al concetto di città come risultato di un’idea urbana unitaria subentra il concetto di un modello flessibile in grado di dare una risposta immediata ai problemi delle persone. E se da una parte le agenzie immobiliari trovano sempre più terreno fertile per le loro attività, dall’altra i grandi architetti famosi vengono chiamati per una progettazione solamente di facciata. A livello sociale questo ha delle ripercussioni enormi: gli abitanti hanno perso la loro identità di cittadini e sono diventati dei consumatori, o nella migliore delle ipotesi degli spettatori”. Da qui, da questo modello a cui opporsi, già in corso in altre realtà straniere, sono nate diverse esperienze in tutta Europa per promuovere nuovi spazi dove l’arte, la musica e il teatro creano consenso, ma soprattutto comunità indipendenti e pensanti, e la cultura si trasforma in rivendicazione di un’idea diversa di città.

Accanto ad occupazioni e attivismo artistico, vi sono anche delle realtà che hanno incontrato il sostegno non solo della comunità, ma anche delle municipalità. In Francia un esempio è il 59 di Rue de Rivoli, nel triangolo d’oro del commercio parigino. È nato nel 1999 come centro occupato dal collettivo di artisti Chez Robert, Électrons Libre, che nel 2006 hanno ricevuto l’assegnazione ufficiale dello stabile ad un canone di 130 euro al mese. Oggi il Rue de Rivoli è considerato come il terzo centro di arte contemporanea nella capitale francese. A Barcellona uno degli esempi più famosi è Casa Tarragó, più conosciuta come La Carbonera, centro di riferimento per la street art internazionale. Dopo un tentativo di vendita, è stata occupata fino al 2014 e poi inserita nel Piano di Protezione Speciale per il patrimonio artistico, in modo da impedirne lo smantellamento. È andata meno bene al Kunsthaus Tacheles, costruito nel 1908 a Berlino e diventato una delle più celebri case occupate da artisti del mondo. Dopo diversi tentativi di sgombero e diverse sentenze di sfratto, il Tacheles è stato chiuso nel 2012, ed è attualmente oggetto di una radicale ristrutturazione che si inserisce all’interno del piano di recupero dell’intera zona circostante.

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