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La pandemia ha colpito la salute mentale di medici e infermieri

Depressione, burnout e insonnia. Dopo tre ondate pandemiche il personale sanitario, e in particolare la componente femminile, è alle prese con una nuova emergenza. In Piemonte il 44,5% ha manifestato sintomi di malessere psichico

Tratto da Altreconomia 238 — Giugno 2021
Infermiera stanca
© pexels

“Ero arrivata al punto che non guardavo più in faccia i pazienti. Erano solo delle maschere di ossigeno, non riuscivo più a considerarle persone. Non ero in grado più di assisterli, di rispondere alle loro esigenze”. Claudia (nome di fantasia) ha 42 anni ed è la caposquadra del pronto soccorso di un ospedale lombardo. Ha avuto bisogno di assistenza psichica già dopo un mese dall’inizio dell’epidemia di Covid-19 in Italia, ad aprile 2020. Ha avvertito i sintomi del burnout: crisi di pianto, insonnia, incubi e un cinismo sempre più crescente verso i pazienti. L’International classification of diseases considera il burnout un fenomeno occupazionale, una sindrome da stress cronico sul posto di lavoro, caratterizzata da una sensazione di impoverimento delle energie, un aumento della distanza mentale e di sentimenti negativi verso il lavoro e gli altri.

“Ricordo un episodio, nello specifico, che mi fece esplodere -racconta Claudia- c’era una signora anziana sottoposta a ventilazione meccanica, a cui dovevo fare velocemente un prelievo. Lei alzò la mano e io gliela bloccai con forza, con rabbia, perché mi stava rallentando l’operazione. Per la prima volta, dopo tanto tempo, alzai lo sguardo e guardai il paziente negli occhi. Sorrideva. Mi voleva accarezzare, per questo alzò il braccio. Questo fatto mi sconvolse più di tutto. Non sono mai stata così, sono sempre stata molto empatica verso il paziente”. Poi gli incubi. “Sognavo in continuazione gli scenari di reparto, come se stessi lavorando anche nel sonno. Dovetti fermarmi e chiedere aiuto a uno psicologo. Molti infermieri, invece, continuano ad andare avanti, non ammettono che sono in difficoltà, che i nervi stanno cedendo”.

Dopo più di un anno di pandemia la salute mentale di medici, infermieri, operatori socio sanitari, inizia a essere un problema. La loro tenuta psicologica sta crollando. Lo confermano numerosi studi internazionali e nazionali. Lo affermano psicologi e psichiatri. Molti di loro, oltre al burnout, soffrono del disturbo da stress post-traumatico, patologia conosciuta nell’immaginario collettivo come “sindrome del Vietnam”, perché fu largamente studiata nei militari americani di ritorno dal fronte. Con una sintomatologia che varia dagli attacchi di panico alla depressione, dalla dissociazione all’insonnia, dagli incubi ai flashback. Gli studi convergono anche su un punto: l’operatore sanitario più danneggiato mentalmente è donna, è giovane ed è infermiera.

I membri del dipartimento di Psichiatria dell’Università di Melbourne hanno analizzato 55 studi sulle ultime epidemie e sugli effetti psichici sul personale sanitario, 38 di questi riguardavano il Covid-19. La ricerca è stata pubblicata a ottobre 2020 ed è emerso che essere infermiere ed essere donna costituisce un rischio maggiore di soffrire di disturbi psichici particolarmente gravi, che possono perdurare negli anni successivi. Anche in Italia le cifre sono preoccupanti. Uno studio di ricercatori italiani, pubblicato a maggio 2020 sul Journal of the American Medical Association, svolto su 1.379 operatori sanitari, ha mostrato come la giovane età e il sesso femminile siano fortemente correlati allo sviluppo di sintomi di stress post-traumatico nel 49,3% degli intervistati.

Un altro studio condotto da aprile a maggio 2020 dall’Università di Verona, che ha coinvolto 2.195 dipendenti dell’Aoui, l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona, ha evidenziato come l’86% del personale soffra di elevati livelli di stress e come il 63% abbia vissuto esperienze fortemente stressanti o traumatiche. Di questi, più della metà ha riportato sintomi di stress post-traumatico. Infermieri e specializzandi i più colpiti. “Studi simili sono stati condotti anche in Cina -spiega Antonio Lasalvia, docente di Psichiatria e primo autore dello studio- ma il personale sanitario italiano è stato più colpito da disturbi psichici. Le ricadute hanno gravato sulla tenuta emotiva dei lavoratori, che al contrario dei colleghi cinesi non avevano mai affrontato un’emergenza epidemica”.

5,7 infermieri ogni mille abitanti in Italia. La media Ocse nel rapporto tra infermieri e popolazione è di 8,2. Secondo il Censis nel nostro Paese mancano 72mila infermieri

L’Ordine degli psicologi del Piemonte ha realizzato uno studio testando 4.550 professionisti sanitari di tutta la Regione rispetto ai problemi psicologici conseguenti alla pandemia. Il 44,7% ha manifestato almeno un sintomo rilevante, moderato o grave, depressione nel 17% dei casi, ansia nel 33,7%, sintomi post-traumatici da stress nel 36,8%, sintomi dissociativi nel 40%. Le donne, il 47,4% del campione, risultano più colpite. Secondo uno studio messicano, pubblicato su Medical&Clinical Research, tra le concause dell’insorgenza di burnout negli infermieri c’è il deficit di risorse umane sanitarie. L’Italia, come il Messico, ha una grave carenza di personale infermieristico.

Un dato in controtendenza rispetto al resto d’Europa. Nel 2020 secondo il rapporto Ocse “Health at a glance” gli infermieri sono aumentati nei Paesi dell’organizzazione ma non in Italia, dove sono sempre 5,7 ogni 1.000 abitanti, contro una media Ocse di 8,2. Dati alla mano, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) parla di una carenza di almeno 53mila unità. Il Censis, ad aprile, parla invece di 72mila infermieri mancanti in Italia. Anche secondo l’Istituto superiore di sanità sulle cause di burnout, oltre al sovraccarico emotivo, influiscono aspetti più pratici, legati all’organizzazione del lavoro e alle risorse umane, come carenza di adeguati dispositivi di protezione individuale, turni di lavoro incalzanti, essere chiamati a intervenire in discipline diverse da quelle di appartenenza o a fronteggiare (soprattutto per gli specializzandi ancora in formazione o i medici neolaureandi) condizioni critiche che richiederebbero maggiore esperienza. Com’è accaduto a Simona, 32 anni (anche questo è un nome di fantasia), una psichiatra in servizio in un ospedale di Milano che a causa dell’emergenza è stata catapultata a fare la pneumologa.

Infermieri si preparano a entrare in un reparto Covid
Il 63% del personale dell’azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona ha vissuto esperienze fortemente stressanti o traumatiche © flickr.com/photos/hospitalclinic – Francisco Avia

“Appena scoppiata la pandemia è stato chiuso il reparto di psichiatria, così come tutti gli altri reparti, e l’ospedale è diventato un unico grande reparto Covid-19 -ricorda Simona- di conseguenza tutti i medici sono stati precettati e chiamati in corsia per aiutare come potevano. Ero stata assunta da poco, a febbraio 2020, praticamente ho fatto la psichiatra appena un mese e subito dopo mi sono ritrovata a fare l’internista, la pneumologa. A fare delle cose che non erano nelle mie competenze. Il momento più difficile è stato un pomeriggio. Essendo psichiatra, come medico ho meno contatto diretto con la morte, quella volta ho visto morire nove pazienti in poche ore. Sono scoppiata a piangere. Dovevo comunicare a nove famiglie che avevano perso i loro cari. Non ero pronta a tutto questo, non avevo studiato anni per questo”.

“Ho passato 20 giorni senza dormire, di insonnia totale tanto da pensare di dover prendere io stessa benzodiazepine” – Simona, psichiatra

Da quel giorno le forze sono venute meno e a maggio, quando la tensione si stava smorzando, è arrivato il crollo. “Ho passato 20 giorni senza dormire, di insonnia totale -prosegue Simona- tanto da pensare di dover prendere io stessa benzodiazepine. Sono andata avanti così, ovviamente con un supporto psichico. Anche adesso dormo malissimo, faccio incubi, mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte con la paura di aver dimenticato di fare qualcosa di vitale in reparto. Dov’è la fine? Non riusciamo a vederla. Tutto continua a ripetersi”.

È ormai chiaro che l’assistenza psichica agli operatori sanitari, che a oggi hanno affrontato tre ondate pandemiche, è necessaria per garantire la tenuta dello stesso servizio sanitario nazionale e la qualità degli interventi in ogni disciplina medica. Una necessità che si scontra con un’altra realtà: in Italia, oltre agli infermieri, mancano gli psicologi. Durante la prima ondata il Consiglio nazionale degli psicologi (Cnop) ha avviato un protocollo con Inail per offrire agli operatori assistenza psichica in ogni azienda sanitaria locale. Solo in poche aziende il servizio è stato attivato, a causa della mancanza di psicologi. Secondo i dati del Cnop, in tutto il servizio sanitario nazionale ci sono 12mila psicologi, uno ogni 12mila abitanti. Mentre in Europa, in media, c’è uno psicologo ogni 2.500 abitanti. David Lazzari, presidente dell’Ordine, lancia un appello: “Serve un reclutamento straordinario di psicologi, almeno due per ogni azienda, per proteggere la salute mentale degli operatori sanitari anche dopo l’emergenza pandemica, quando il grosso dei disturbi inizierà a emergere”.

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