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Cultura e scienza / Opinioni

Così vogliamo cambiare l’università italiana

La sede dell'università La Sapienza di Roma © wikimedia commons

Ripartiamo dallo sviluppo della cultura (per tutte e per tutti), combattendo la spersonalizzazione. Non esiste “capitale umano”. Esistono le persone. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 239 — Luglio/Agosto 2021

Se vogliamo (e vogliamo!) cambiare profondamente l’università italiana, dovremmo ricordare due cose. La prima è che lo scopo che la Costituzione della Repubblica assegna all’università è quello enunciato nel primo comma dell’articolo 9: lo sviluppo della cultura e la ricerca. Già settant’anni prima della promulgazione della Carta, questo scopo era appannato, dimenticato, se Francesco De Sanctis poteva constatare che “le stesse università non sono più centri di seria cultura, sono fabbriche di professionisti”. 

Ebbene, la Costituzione anche su questo punto volle voltare pagina. E noi dobbiamo ricordarci che gli stakeholders (come ci insegnano a dire) dell’università sono non le imprese, o il “mercato del lavoro” in cerca di capitale umano profilato a dovere: ma sono le cittadine e i cittadini della Repubblica. Prima ancora: le persone umane, perché la scuola è “aperta a tutti” (articolo 34 della Costituzione), non solo ai cittadini.

È una democrazia, la nostra, che ha vitale bisogno di aprirsi davvero a tutti, attraverso la pratica di massa del pensiero critico. Martin Luther King ha scritto che “in una certa misura la libertà accademica è una realtà oggi, perché Socrate praticava la disobbedienza civile”. Ebbene, la ricerca su cui il primo comma dell’articolo 9 della Costituzione fonda la Repubblica, la nostra ricerca di ogni giorno è ancora la ricerca di cui parla il Socrate de “L’Apologia”: “Ora mi si potrebbe dire: ‘Ma una volta via di qui, Socrate, non potreste startene zitto e quieto?’ Ecco precisamente il punto su cui è più difficile persuadere alcuni di voi… non mi crederete se dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere o esaminare me stesso e altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo. Ma le cose stanno così”. Penso che questa visione possa essere ancora oggi quella fondamentale per governare l’università. 

La seconda cosa che occorre ricordare è che uno dei più gravi problemi dell’università moderna (così come della scuola, o della sanità) è la sua spersonalizzazione. La sua “disincarnazione”, per usare un termine caro a un grande pensatore “eretico” del nostro tempo, Ivan Illich. Tutti i dispositivi atti a sorvegliare e punire che ho ricordato presuppongono la spersonalizzazione, e conducono a un governo dei numeri. Al contrario, è essenziale una dimensione di conoscenza personale. Di ascolto reciproco e di frequentazione libera.

Sempre con Illich vorrei dire: una dimensione di convivialità. Sì, anche in senso letterale: condividere il pane, creare momenti di frequentazione. Tra persone: prima che tra professori, studenti, personale tecnico e amministrativo. Non capitale umano, ma persone umane: quelle persone il cui pieno sviluppo è lo scopo del nostro stesso stare insieme come collettività nazionale, secondo l’articolo 3 della Costituzione. L’università “astratta” -quelle delle idee, quella dei programmi, quella della ricerca e della didattica- non può esistere se non passando attraverso la vita concreta di una comunità di persone concrete in cui valorizzare le differenze (a partire da quelle legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere) e combattere le disuguaglianze (a partire da quelle generate dal ruolo accademico differenziato, e dalla separatezza tra docenti e personale tecnico e amministrativo). Rammentando queste due cose, l’università può cominciare a cambiare davvero.

Tomaso Montanari è professore ordinario presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani
di Italia Nostra

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