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Diritti / Reportage

“Così ho accolto Muhammed”. Diario di chi ha aperto la porta

Muhammed, 20 anni. È giunto in Italia dal Mediterraneo quando ancora era minorenne. Come lui, nel 2016 sono stati oltre 25mila i minori stranieri non accompagnati - Chiara Spadaro

La microaccoglienza domestica dei richiedenti asilo raccontata da chi l’ha vissuta e praticata, a Vicenza, ospitando un giovanissimo migrante del Gambia. Un’esperienza arricchente fatta di relazioni, culture e idiomi differenti

Tratto da Altreconomia 191 — Marzo 2017

Il giorno che ho incontrato Muhammed indossavo una collana a forma di pesce. Sapevo che era venuto dal mare e volevo fargli sapere che adesso era qui, sulla terraferma, a casa. Per comunicare, usavo un pesce di pietra perché ancora non sapevo che lingua avremmo parlato. Come non sapevo che, una volta trovata, ancora in tante occasioni non ci saremmo capiti.
L’estate scorsa, con il mio compagno abbiamo deciso di aderire al progetto di microaccoglienza di richiedenti asilo, “Rete diffusa”, della cooperativa Idea Nostra di Vicenza. È uno dei tanti progetti in Italia che propongono l’ospitalità in famiglia come alternativa all’accoglienza dei migranti in grandi hub o centri di accoglienza. La microaccoglienza residenziale parte con la volontà di sostenere un percorso di integrazione sociale dei richiedenti asilo: in famiglia li si può seguire da vicino nell’apprendimento della lingua, nella conoscenza dei diversi servizi cittadini e del mondo del lavoro, ma anche condividere del tempo libero e inserirli in una rete di relazioni. Nel nostro caso, l’accordo con la cooperativa e Muhammed -che era sbarcato in Sicilia dal Gambia da oltre un anno- prevedeva che l’accoglienza sarebbe durata fino a quando non avremmo saputo l’esito della sua richiesta di asilo. Un tempo che non è possibile conoscere a priori, ma durante il quale la cooperativa si impegna a fornire consulenza e assistenza alla famiglia -alla quale è corrisposto un contributo mensile di 450 euro al mese, più altri 100 al mese garantiti a fine progetto al richiedente asilo- e, in caso di difficoltà o gravi imprevisti, a riaccogliere il migrante nella propria struttura.

La città di Muhammed si chiama Banni. 56 case, una moschea al centro e una chiesa all’estremità sinistra. Il suo Paese, il Gambia, è abitato da 2 milioni di persone

Quella della cooperativa Idea Nostra è riconosciuta come “Centro di accoglienza straordinaria” (Cas), uno dei tanti nati per fronteggiare l’emergenza dei crescenti arrivi di persone in fuga dai loro Paesi, che oggi assorbono oltre il 70% del totale dei posti. È un sistema parallelo a quello di accoglienza e integrazione Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, www.sprar.it), promosso dal ministero dell’Interno con gli enti locali. Secondo l’ultimo Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, nel 2015, circa 34mila persone al giorno sono fuggite da conflitti e situazioni di crisi: una media di 24 persone al minuto. Sono stati oltre 65 milioni i migranti forzati nel mondo nel 2015, di cui 21,3 milioni di rifugiati, 40,8 milioni di sfollati interni e 3,2 milioni di richiedenti asilo.
Nel nostro Paese, a inizio ottobre 2016, erano presenti oltre 165mila persone. Nella rete di primissima accoglienza si trovavano oltre 14mila richiedenti protezione internazionale; altri 128mila nelle strutture temporanee di accoglienza (più del doppio rispetto al 2015); infine negli Sprar, circa 23mila persone. Su 8mila Comuni italiani, solo 2.600 (1 su 4) hanno accolto migranti nel 2016.
Oggi Muhammed ha 20 anni, ma è entrato in Italia da minorenne: nel 2016 sono stati oltre 25mila i minori stranieri non accompagnati (dati della Fondazione Ismu) arrivati in Italia, più del doppio rispetto al 2015.

Lui viene dalla Gambia -10mila chilometri quadrati abitati da 2 milioni di persone, il 40% con meno di 14 anni-, uno dei principali Paesi di origine dei migranti in Italia, insieme a Eritrea, Nigeria e Somalia. Da quando ci siamo conosciuti, in casa abbiamo iniziato a chiamarla così, al femminile: la Gambia. Oltre a leggere articoli e materiali per sapere qualcosa di più di quel Paese, in biblioteca ho cercato una guida; ce n’era solo una di disponibile: “Vedere il Senegal e la Gambia” (1990). Tenendo tra le mani la mappa dell’Africa occidentale e guardandola dall’alto, la Gambia sembra un serpente che striscia dentro al Senegal. Ma è anche un fiume che va nella direzione opposta del serpente e si getta nell’Atlantico. Per Muhammed, invece, era un posto dal quale andarsene e dove non tornare per paura di morire; un’immagine opposta da quella che un giorno mi ha mostrato in un video di resort con vista sull’oceano e piscine d’acqua termale: “Anche questo è il mio Paese”.
Tra le squame del serpente si trova Banni, il suo paese nativo. Se le conti su google maps ne trovi 56 di case, più una moschea al centro e una chiesa all’estremità sinistra. Muhammed è musulmano e quando è arrivato da noi era il tempo del Ramadan: per un “torrido” (questa la radice della parola araba) mese non avrebbe mangiato, né bevuto dall’alba al tramonto del sole. Un tempo “sacro” scandito da un’applicazione del telefonino che ricorda il tempo della preghiera. “A casa nostra invece ci svegliamo con il muezzin”, sorride Bruno Scortegagna, presidente della cooperativa Idea Nostra, che ha allargato la famiglia da 5 a 7 persone ospitando due richiedenti asilo gambiani, Abubacarr e Morrow. “I ragazzi escono alle 6.30 per raggiungere l’azienda agricola dove fanno il tirocinio, ma lasciano il tablet in camera e bevendo il caffè sentiamo il muezzin che canta”.

“La nostra casa è stata pensata per l’accoglienza al momento dell’acquisto -dice Bruno-. Perciò avere degli spazi riservati ai ragazzi ci ha aiutati in questa esperienza”. Da Bruno e Cristiana, Abubacarr e Morrow hanno una loro camera e il bagno. Quando sono arrivati, si sono presentati agli altri condomini cucinando una cena a base di riso, salsa di arachidi, pomodoro e pollo.
Anche Muhammed cucina spesso questo piatto a partire da un forte soffritto: lo guarda e mi dice nella sua lingua, il mandinka, “soso”. Cerco sempre una traduzione italiana delle sue parole; subito penso che “soso” sia il riso con le verdure e il pollo, ma dopo una serie di tentativi capisco che significa “sugo”. Sorride quando provo a ripetergli delle parole in mandinka: usiamo una rubrica per orientarci tra idiomi distanti 5.700 chilometri, che d’improvviso si trovano sotto lo stesso tetto.

7% la quota di cittadini gambiani sbarcati sulle coste italiane dal primo gennaio 2016. È la quinta nazionalità, dopo Nigeria, Eritrea, Guinea e Costa d’Avorio

Il condominio dove abita Bruno, invece, ha già conosciuto molte lingue: “Hanno abitato con noi persone del Bangladesh, un’albanese, turchi e serbi… e questo ci ha facilitato nel dire all’assemblea di condominio che avremmo ospitato due richiedenti asilo”. E le vicine, che quando lui e Cristiana non ci sono preparano da mangiare per i ragazzi, si sono abituate presto a cucinare senza maiale, sapendo che Abubacarr e Morrow sono musulmani. E mentre “Buba” che in Africa ha fatto il meccanico, dà una mano ad aggiustare le biciclette dei condomini, al tavolo della cucina Morrow e Maddalena, che ha 9 anni, fanno insieme i compiti di italiano. “E poi il calcio è entrato in casa nostra, nel bene e nel male”, sorride Bruno. A gennaio si è tenuta la Coppa delle nazioni africane, vinta per la quinta volta dal Camerun che ha battuto l’Egitto e anche nel nostro giardino, in questi mesi, un pallone si è fatto spazio tra le aromatiche e i fiori. Muhammed gioca a calcio in una squadra di un quartiere vicino e porta il fango dei campi a casa, dopo le pedalate sulla bicicletta azzurra. Una mattina che pioveva l’ho aiutato a indossare un impermeabile chiaro. Quando è sbucato fuori con la testa mi ha guardata dritta negli occhi: “Come in nave”. Poi è partito sulla solita bici. Per alcuni mesi al mattino ha fatto un tirocinio in una comunità per minori, affiancando il manutentore nei lavori quotidiani di muratura, tinteggio, restauro o giardinaggio.

Un giorno Muhammed mi ha detto: “Saluta Fatoumata”, e allungato il telefonino all’orecchio. Dalla finestra della nostra casa di Vicenza stavo parlando con il Gambia: “Hello?”. Poco tempo dopo, imprevedibilmente, un’altra Fatoumata, Jallow-Tambajang -storicamente impegnata per una trasformazione democratica del Paese-, sarebbe diventata la prima vicepresidente donna della piccola nazione serpente che entra in Senegal. Dopo 22 anni di governo di Yahya Jammeh, l’imprenditore immobiliare Adama Barrow ha vinto le elezioni del 1° dicembre. Solo il 21 gennaio, dopo una crisi politica durata sei settimane, Yahya Jammeh ha ceduto alle pressioni della Comunità degli stati dell’Africa occidentale (Cédéao) e dell’Unione africana e abbandonato il Paese, fuggendo in Guinea Equatoriale. Intanto, Barrow aveva giurato nell’ambasciata del Gambia in Senegal e iniziato a costruire il nuovo governo. “Sai la vicepresidente del Gambia è una donna?”, Muhammed sorrideva qualche giorno dopo.

A febbraio ha ricevuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari, valido per due anni e rinnovabile. Siamo andati a ritirarlo nella “palazzina stranieri”, come viene chiamata la sala dell’ufficio immigrazioni della Questura che rilascia i permessi: 10 sportelli, decine di ragazzi con zaini, cappellini e sneakers che aspettano in piedi e qualche donna con il velo, seduta. Una voce dagli altoparlanti ricorda con insistenza che “non diamo informazioni, solo chi ha appuntamento viene ricevuto”. Nei primi dieci mesi del 2016 sono state presentate in Italia oltre 98mila domande di asilo (nell’85% dei casi, da uomini). Di 76mila domande esaminate nello stesso periodo, nel 62,5% dei casi l’esito è stato negativo, in linea con la media europea (nel 2015 i dinieghi sono stati il 39%). Di 53mila ricorsi tra il 2013 e il 2016, il 76% è stato accolto. Adesso che ha i documenti, Muhammed deve uscire dal progetto di accoglienza e costruirsi un futuro ripartendo dal punto d’inizio, come dice il poeta gambiano Lenrie Peters. “Jumping across worlds / In condensed time / After the awkward fall / We are always at the starting point”. Ma questa volta l’inizio è un lembo di terraferma.

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