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Altre Economie / Reportage

Una guida per conoscere da dentro i Sibillini sconvolti dai terremoti del 2016

La comunità di Ussita, nell’Appennino marchigiano, ha immaginato una serie di itinerari per scoprire il territorio ai piedi del Monte Bove. Un modello di turismo responsabile e a basso impatto, che diventa anche spazio di incontro e condivisione, facilitato dall’associazione C.A.S.A. (Cosa Accade Se Abitiamo)

© Luca Martinelli

Prima dei terremoti dell’agosto e dell’ottobre 2016 a Frontignano di Ussita, sui Monti Sibillini in provincia di Macerata, non viveva nessuno. Quassù, a 1.350 metri sul livello del mare, c’erano seconde case, residence ed hotel: era (solo) una stazione sciistica, edificata a partire dalla fine degli anni Cinquanta su quelli che fino ad allora erano stati pascoli e campi coltivati a grano.

Oggi a Frontignano c’è una piccola comunità di sette residenti: se “Cosa Accade Se Abitiamo” fosse una domanda, e non il nome dell’associazione (l’acronimo è C.A.S.A.) che tra le abitazioni in località Pian dell’Arco ha aperto un porto di montagna, residenza artistica e spazio culturale, la risposta sarebbe: saremmo capaci di costruire comunità, anche affrontando le condizioni più avverse.

È possibile capirlo camminando per mezza giornata, guidati da Chiara e Marta di C.A.S.A., seguendo uno degli itinerari descritti nella guida “Ussita. Deviazioni inedite raccontate dagli abitanti”, uscita per Ediciclo editore nella collana Nonturismo, curata da Sineglossa e Riverrun. È sufficiente ascoltare i “testimoni” del passato, del presente e del futuro di Frontignano: osservando camminare nel bosco una bambina di nome Viola, che a 11 anni si è trasferita quassù con mamma Federica e papà Marco, direttore dell’ufficio postale giù ad Ussita; ascoltando i ricordi di Peppe, che è nato più di sessant’anni fa a San Placido, un borgo sotto Frontignano, e quassù veniva da piccolo a portar l’acqua ai mietitori, a togliere i sassi dai campi di grano perché le falci non si rompessero.   

Non ci sono bar né alimentari, a Frontignano, ma non è colpa del terremoto: all’ombra del massiccio del Monte Bove, nella “nostra Innsbruck a due passi da Macerata” (così un articolo del 1987, firmato da Maurizio Costanzo per Il Messaggero) una “comunità” non c’era mai stata. Oggi, invece, di fronte ai ruderi del residence Ambassador (all’inizio degli anni Ottanta “fu inaugurato con un evento chiamato Cristallo di Neve, al quale parteciparano molti personaggi noti […]. Un residence da moquette rossa e corridoi lunghi”, si legge nella guida) una comunità c’è, è capace di far arrivare persone da tutta Italia per partecipare a una camminata e chiede che l’ecomostro non venga ricostruito dov’era e com’era perché oggi, dopo un terremoto distruttivo e a fronte dei ritardi della ricostruzione, quel modello di insediamento, un alveare con 100 appartamenti, non dovrebbe più appartenere a questa montagna.

La comunità è, infine, quel soggetto che può aiutare chi arriva in un luogo, turista o viaggiatore, a scalfire il proprio pregiudizio. È successo anche a chi scrive: seguendo il navigatore verso la sede di C.A.S.A., in un piazzale all’imbocco di uno dei sentieri verso il Monte Bove, la presenza di un baracchino che prometteva “fritti e specialità abruzzesi” aveva fatto storcere il naso. Nei giorni precedenti, in giro per i Sibillini terremotati, con quasi tutti i rifugi ancora chiusi e inagibili, era frequente la presenza di ristori volanti, con improbabili cartocci di olive ascolane offerti ai 1.550 metri sul livello del mare di Forca di Presta, valico stradale dell’Appennino umbro-marchigiano, ai piedi del monte Vettore. Davanti a quel baracchino, però, l’itinerario della “deviazione inedita” prevede un sosta, per incontrarne i gestori, Gianfranco e Franca. Hanno un’ottantina d’anni e ne hanno dedicati oltre cinquanta, insieme, a Frontignano. Raccontano la loro storia: cominciarono gestendo un rifugio del CAI, quello che aveva ospitato il pranzo del loro matrimonio, e quello alle nostre spalle è il loro hotel “Felycita”, l’ingresso sbarrato.

Felicita è il nome della figlia, che con il genero Antonio oggi li aiuta a gestire il baracchino, in attesa di poter riaprire una struttura ricettiva. In pochi metri quadri preparano i piatti della tradizione, come le lenticchie in umido. Alla fine della passeggiata, così, è qui che si torna a bere una birra, seduti ai tavoli di plastica. Brindando a una comunità nata sulle macerie di un terremoto e capace di aiutare chi lo desidera ad aprire gli occhi su ciò che accade in Centro Italia.    

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