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Diritti / Reportage

I “corridoi umanitari” che salvano la vita dei richiedenti asilo siriani

Nell’ultimo anno 700 persone hanno raggiunto l’Italia dal Libano, in aereo, grazie alla collaborazione tra Farnesina, ministero dell’Interno e 3 associazioni. A Beirut abbiamo raccolto le storie di alcune famiglie mentre si preparavano a partire

Tratto da Altreconomia 192 — Aprile 2017
Bambini siriani appena arrivati all’aeroporto di Fiumicino con il corridoio umanitario - foto di Sara Manisera

Per raggiungere la casa di Fadi ci vuole più di un’ora con un autobus collettivo. La strada a due corsie che da Beirut conduce a Baakline, località del Monte Libano a maggioranza drusa e a circa quarantacinque chilometri dalla capitale libanese, è occupata in modo disordinato in tutte le sue parti. Ci sorpassano auto di grossa cilindrata che si alternano a furgoncini e van impazziti. A destra c’è il mar Mediterraneo, ma la vista è disturbata da centri commerciali, palazzi invadenti, insegne luminose ed enormi scheletri di cemento armato, abbandonati lungo la costa. Di rado si scorgono terreni coltivati e distese di bananeti. L’entrata nella regione dello Chouf, dove abita Fadi, è segnata da un check-point militare, eredità della guerra civile libanese. Uomini in divisa controllano i documenti dei passeggeri degli autobus; il più delle volte, i siriani come Fadi sono fatti scendere e portati in qualche caserma in modo del tutto arbitrario.
Dall’inizio della guerra in Siria, più di un milione e duecentomila siriani si sono rifugiati in Libano, secondo le organizzazioni umanitarie, ma le stime sono al ribasso poiché il governo libanese ha chiesto nel maggio del 2015 all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) di interrompere la registrazione dei nuovi arrivati. Uomini, donne e bambini sono intrappolati in un fazzoletto di terra, in condizioni di estrema vulnerabilità, privi di diritti e senza alcuna via di fuga. A Ovest c’è il Mediterraneo, a Sud la controversa frontiera con Israele, chiusa e presidiata dai caschi blu delle Forze di interposizione delle Nazioni Unite (UNIFIL), mentre a Est e a Nord il territorio confina con la Siria, lungo segmenti disegnati da arbitri esterni nel 1916, conosciuti nei libri di storia come accordi Sykes-Picot.
Tra i siriani c’è chi vive in garage, chi in edifici abbandonati, chi in campi non organizzati sparsi nelle aree rurali e chi, più fortunato, in appartamenti. Dalla finestra della casa di Fadi s’intravedono le montagne verdeggianti dello Chouf. Il paesaggio è cambiato: casolari bassi in pietra, antichi terrazzamenti e piante d’ulivo suscitano nostalgia per un tempo perduto quando le comunità vivevano con lentezza e frugalità. L’aria è fresca e ancora si assapora l’inverno.

“Ho conosciuto mia moglie su un aereo -racconta Fadi, originario di Sweida, cittadina siriana vicino al confine con la Giordania-. Mi sono lamentato del pranzo con una hostess e poi le ho chiesto il numero”, dice, e sorride mentre lo ricorda. “Lavoravo in Arabia Saudita in una scuola privata e per tredici anni ho sempre preso un aereo”.
Oggi Fadi non può viaggiare. È un professore d’inglese con passaporto siriano, e ciò significa che non ha nessuna possibilità di ottenere un visto d’ingresso per quasi nessun Paese. Non è facile viaggiare per chi nasce nel posto e nel momento sbagliato. “Un siriano oggi, è una persona colpevole ovunque egli vada”, afferma Fai senza alcun vittimismo. L’azienda Arton Capital ha elaborato il passport index, dove ogni passaporto è analizzato e classificato secondo la sua possibilità di viaggio e alla facilità di ottenere un visto. Il prestigio di ogni passaporto dipende dal numero di Paesi in cui si può entrare senza visto o per i quali è abbastanza semplice ottenerlo.
La Siria -nell’indice- è al 196esimo posto, e peggio fanno solo da Iraq, Afghanistan e Pakistan. Ciò significa che i cittadini in possesso di questi passaporti non possono viaggiare in quasi nessun Paese.

Preparativi prima della partenza verso l’Italia da Beirut - foto di Sara Manisera
Preparativi prima della partenza verso l’Italia da Beirut – foto di Sara Manisera

Diritto al viaggio, valigie e dignità
Viaggiare, dunque, è un privilegio per pochi. La libera circolazione del proprio corpo dipende dalla nazionalità del passaporto. Senza altra possibilità, l’unica soluzione è di affidarsi alla rete dei trafficanti. Le alternative ai muri e al protezionismo delle persone, tuttavia, esistono. Il progetto pilota italiano dei corridoi umanitari ne è una dimostrazione. Grazie al protocollo firmato dal ministero degli Esteri e dell’Interno insieme ad un gruppo di associazioni promotrici -la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (FCEI), la Tavola valdese e la Comunità di Sant’Egidio- sono stati rilasciati mille visti umanitari per permettere alle persone di viaggiare in modo sicuro e legale con un normale biglietto aereo. Il cui costo è nettamente inferiore rispetto a quello che pagherebbe un migrante per viaggiare nell’illegalità, rischiando la vita.
“I corridoi umanitari aprono una discussione politica a livello globale perché affrontano il tema del diritto alla protezione internazionale e al viaggio -spiega Francesco Piobbichi, operatore sociale per Mediterranean Hope, progetto della FCEI-. L’idea è che essi siano replicabili perché si sviluppano con una modalità orizzontale, per procedure, per organizzazione e per i rapporti che s’instaurano tra la società civile e lo Stato. Con i corridoi si va oltre la frontiera per ragionare di diritti”.
Oltre a garantire il diritto al viaggio e la possibilità di ottenere il diritto d’asilo senza morire, i corridoi umanitari restituiscono anche la dignità alle persone che partono. Possono spostarsi con delle valigie, riempite dei propri oggetti e ricordi. “Ho pensato diverse volte di partire pagando dei trafficanti ma ho preferito mantenere la mia dignità, senza essere trattato come un rifugiato disgraziato o rischiare di perdere la vita attraversando il mare”, spiega Fadi.
Nel suo umido appartamento una stufetta elettrica riscalda l’ambiente impregnato di fumo. Fadi parla con calma, scegliendo con cura ogni parola. S’interrompe solo per preparare il mate, l’infusione originaria del Sud America introdotta in Siria dai migranti levantini espatriati.
“Quando mi sono sposato, io e mia moglie abbiamo scelto di tornare in Siria dove ho continuato a insegnare. Mi hanno licenziato per aver detto alle mie studentesse che la violenza genera violenza -racconta accennando una smorfia di disdegno-. Era l’inizio della rivoluzione siriana (marzo 2011, ndr). Ho partecipato alle proteste con i miei studenti. Chiedevamo riforme, libertà e dignità. Con il passare del tempo, le proteste sono state inquinate da attori esterni, dal regime che ha scarcerato centinaia di jihadisti e criminali che hanno soffocato la rivoluzione e dal silenzio di una popolazione pavida. Mi hanno arrestato due volte, picchiato e torturato. Ho deciso di lasciare la Siria perché non era più sicuro viverci ma in Libano è come stare in un limbo, sfruttato quando lavoro e con la paura di essere arrestato”.
Fadi e la sua famiglia sono arrivati in Italia a marzo. Grazie al progetto, finanziato dalla società civile e dall’8 per mille della Chiesa Valdese, circa settecento persone sono arrivate nell’ultimo anno in Italia. Sono state accolte dalla rete delle organizzazioni promotrici, in maniera diffusa sul territorio nazionale, con un’accoglienza personalizzata in base alle caratteristiche, esperienze e studi delle persone che viaggiavano, per permettere un miglior inserimento nella società italiana.

Madre el figlio si preparano a salire sull’autobus per raggiungere l’aeroporto della capitale libanese - foto di Sara Manisera
Madre e figlio si preparano a salire sull’autobus per raggiungere l’aeroporto della capitale libanese – foto di Sara Manisera

In un altro appartamento, alle porte di Beirut, c’è chi ha già cominciato a preparare la valigia. “Ho messo i pochi libri di Mahmoud Darwish (poeta e scrittore palestinese, ndr) che sono riuscito a portarmi dalla Siria”, racconta Faraj, venticinque anni, originario di Salamiyah. Lui è arrivato in Libano quattro anni fa, attraversando il confine illegalmente, per disertare l’esercito siriano. “Non volevo partecipare a una guerra contro il mio popolo. Ho creduto alla rivoluzione e ho partecipato alle proteste pacifiche”. Di diverso avviso è la moglie Nour, arrivata in Libano pochi mesi fa. “Non sto con nessuno. Ho visto le uccisioni e la ferocia da entrambe le parti”. A Raqqa, città del Nord della Siria, Nour ha vissuto l’evolversi della guerra: la presenza dell’esercito siriano libero prima, la presa di potere del gruppo islamista Ahrar al-Sham e l’arrivo dello stato islamico. “Eravamo obbligate a indossare l’hijab, poi il niqab e perfino i guanti”, spiega la giovane donna dai lunghi capelli biondi e dal sorriso cordiale. “Essendo ismailita (corrente sciita dell’Islam, ndr), un mio amico mi ha procurato un finto documento d’identità che mi permetteva di viaggiare dalla mia città a Raqqa -spiega con naturalezza-. “Ho rischiato di morire ma avevo lo stesso rischio anche sotto le bombe, almeno in questo modo ho esaudito il mio sogno, finire l’università e prendermi la laurea in biologia”, racconta soddisfatta. Entrambi sanno che la scelta di partire sarà una sfida. Le loro famiglie sono in Siria e una volta ottenuto l’asilo in Italia non sarà così facile tornare indietro. “Questo progetto per noi è una buona possibilità per partire in sicurezza e iniziare una nuova vita”, spiega Faraj.

Non tutti, però, sono convinti di partire. Ali è un ragazzo iracheno che vive a Beirut da due anni. Ha il fisico snello e definito, la barba ben curata e un viso affettuoso. Accanto all’albero di natale ancora nel salotto, c’è un orsacchiotto di peluche. “Sogno di aprire una palestra e continuare a fare sport”, racconta fin da subito. Alì, musulmano sciita, si è rifugiato nel Paese dopo essere stato sequestrato a Baghdad da bande locali che volevano un riscatto. Ha perso un fratello e una sorella negli attentati degli ultimi anni nella capitale irachena e gli hanno bruciato il negozio perché -racconta- “sono nato in una famiglia in cui mio padre ci insegnava il Corano e la Bibbia e ho sempre frequentato amici cristiani”. Nonostante tutto Ali continua a credere in un Iraq unito e libero. Il suo compagno, siriano, con un passato di minacce e di torture, è già arrivato in Italia con l’ultimo corridoio, ma lui ha le idee chiare: “Sono scappato da una prigione e non voglio finire in un’altra. Vorrei essere rispettato per quello che sono e non per il mio passaporto. Se vengo in Italia, vorrei avere la libertà di viaggiare e di tornare nel mio Paese se voglio vedere la mia mamma. Se tu lo puoi fare, perché io non posso?”.

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