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Cultura e scienza / Intervista

Corrado Stajano. La scrittura, pratica di libertà

Corrado Stajano è nato a Cremona nel 1930 © Giovanna Borgese

Lo scrittore che del giornalismo d’inchiesta ha fatto uno strumento per conoscere la storia e opporsi alle sue ingiustizie, racconta protagonisti e luoghi dei suoi libri

Tratto da Altreconomia 213 — Marzo 2019

C’è anche una copia di Altreconomia nella “stanza dei fantasmi” di Corrado Stajano. L’ha chiamata così in un libro del 2013 (per Garzanti): è il suo studio, zeppo di libri e ricordi di una vita spesa nel comprendere e raccontare il Novecento. Corrado Stajano, nato 88 anni fa a Cremona, è un gigante del giornalismo italiano. Laurea in giurisprudenza a Milano, ha scritto e ancora oggi scrive per il Corriere della Sera; ha lavorato a lungo per la Rai, è autore di numerosi libri ed è stato anche senatore tra il 1994 e il 1996. Sulla scrivania dove siede quando lo intervistiamo si notano due spessi frammenti di metallo. “Sono le schegge di una granata che per pochi centimetri non mi uccise durante la guerra”.

Su una parete, un ritratto con Primo Levi. Poco più in là, un acquerello dipinto da Tiziano Terzani che lo scrittore gli ha donato nel 2001. Più in alto, in un angolo, il ritratto originale che il pittore Bruno Caruso fece di Franco Serantini, l’anarchico ventenne morto a Pisa nel 1972 a seguito della feroce aggressione da parte delle forze di polizia a margine di una manifestazione. Quel ritratto -virato in rosso- diventerà l’immagine di copertina de “Il sovversivo”, il libro inchiesta che Stajano pubblicherà sulla vicenda nel 1975, per i tipi di Einaudi. Oggi “Il sovversivo” viene ripubblicato da Il Saggiatore, impreziosito dai disegni che l’artista Costantino Nivola tracciò nel 1977 sulla copia che gli era stata prestata niente meno che da Antonio Cederna. Quella copia oggi è sulla scrivania di Stajano, accanto alle schegge.

Perché decidesti di scrivere della tragica vicenda di Serantini?
CS Avevo letto la notizia sui giornali e mi aveva molto colpito. Vedevo l’immagine di un ragazzo solo, immobile sul Lungarno di Pisa, un giovane che nella vita aveva subìto ogni tipo di durezza. Sardo, figlio di nessuno, adottato e poi di nuovo in istituto. Arriva a Pisa, è il 1968, e per la prima volta riacquista la libertà, si sente una persona come gli altri. Si dà da fare, frequenta i movimenti politici, nel 1972 partecipa a un presidio e su di lui si scatena la furia delle forze dell’ordine. Muore in carcere, ancora solo. Quella storia mi aveva addolorato, ma io detesto gli istant book e ci ho messo più di due anni a scrivere della vicenda. Ho messo da parte e letto le carte, parlato con i testimoni e passato alcuni mesi a Pisa, i luoghi sono importanti, sono un fondamento di verità. Il libro era pronto per la pubblicazione a settembre 1974. Einaudi ne doveva stampare 12mila copie. Quando però lo lessero decisero di rimandare a febbraio 1975 l’uscita, per promuoverlo al meglio. Tirarono 50mila copie. E alla fine ne vendettero 250mila. Dopo decenni l’ho riletto, per scrivere l’introduzione a questa nuova edizione. È stato un grande dolore, ancora oggi. Ho recuperato un sacco dove tenevo tutte le recensioni e tutte le lettere che avevo ricevuto da chi l’aveva letto, persone conosciute e sconosciuti. Ci ho trovato dentro una società che era capace di grande passione.

Che cosa insegna oggi quella storia?
CS È il segno di una generazione, tanto che ancora oggi, negli eventi pubblici, qualcuno mi presenta l’edizione originale. È una storia rimasta nei cuori, ma anche la storia del passato che non passa. Penso a Genova, nel 2001. Alle violenze inaudite della caserma di Bolzaneto. Penso a Federico Aldrovandi, nel 2005, a Stefano Cucchi, nel 2009. Credo sia utile che un ventenne di oggi legga di quel pezzo di storia d’Italia. E capisca come abbiamo fatto di tutto per opporci a quanto accadeva, ciascuno con i propri strumenti. Il mio è la scrittura. Il più delle volte siamo stati sconfitti e quella sconfitta riecheggia ancora oggi quando si continua ad assalire la Costituzione, che continua a rappresentare il momento più alto del nostro Paese uscito dal fascismo. Vorrei però che i giovani oggi capissero anche che, a dispetto della grande indignazione dell’epoca, anche Serantini non venne difeso da nessuno e nella morte fu lasciato solo. Questo ad esempio distingue il suo caso da quello di Aldrovandi e Cucchi, dove le donne in particolare -la madre nel primo caso, la sorella nel secondo- hanno mostrato una forza e una determinazione straordinarie.

“Serantini non venne difeso da nessuno e nella morte fu lasciato solo. Un caso diverso da quello di Aldrovandi e Cucchi, dove le donne hanno mostrato una forza e una determinazione straordinarie”

Pochi anni prima, nel 1969, la strage di piazza Fontana. Fosti tra i primi ad arrivare, come racconti ne “La città degli untori”.
CS Ero su un taxi e il tassista mi dice che si parlava dello scoppio di una caldaia. Mi faccio portare in piazza Fontana, entro nella sede della banca quando ancora non era arrivata la polizia. Davanti ai miei occhi l’immagine è terrificante, brutale. Pochi giorni dopo, piazza del Duomo è stracolma per i funerali delle vittime. Gli operai delle fabbriche dell’area metropolitana accorrono a fare il servizio d’ordine. Fu un grande momento per la città, che seppe dire no al vento di colpo di Stato che aleggiava.

Dieci anni dopo, nel 1979, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli cui hai dedicato “Un eroe borghese”, altro libro divenuto un classico del giornalismo d’inchiesta.
CS Eravamo due persone agli antipodi e non ci conoscevamo, anche se entrambi avevamo studiato negli stessi anni alla Statale. Venne ucciso non molto distante da dove abitavo all’epoca. Anche in quel caso, mi ci volle molto tempo: fu un libro difficile, dovetti studiare molto. Quando fu pubblicato, nel 1991, mi resi conto che era la storia di un uomo che si sarebbe potuto mettere in salvo con una semplice firma. Ma la sua coscienza aveva prevalso.

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