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Diritti / Opinioni

Il Coronavirus è un problema sanitario, non un nemico di una guerra misteriosa

Aver trasformato il COVID-19, un grave problema di salute pubblica, in uno scenario di “protezione civile” è stato un errore. L’auspicio è che dopo l’emergenza, alleata della “paura” e della “sicurezza”, la sanità torni a essere un indicatore di democrazia e di servizio, e non un garante di risposte vendute bene all’opinione pubblica. Il commento di Gianni Tognoni, già direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud

© CDC - Unsplash

Sono un “cittadino informato”, ho alle spalle una vita di ricerca (riconosciuta come non banale, in Italia e fuori) in campo clinico-epidemiologico. Non mi considero esperto sugli aspetti di base e specialistici di un problema sanitario trasformato in un mosaico che evoca il contesto (e l’universo di personaggi, simboli, messaggi) dell’angosciante “cecità bianca” di Saramago più che una questione di salute pubblica da gestire in un Paese con un sistema sanitario nazionale e tutte le competenze scientifiche e tecnologiche necessarie e disponibili.
Mi riconosco completamente nelle posizioni (che hanno cercato di farsi strada nell’invasività aggressiva di decreti, raccomandazioni, talk show, cifre, previsioni, misure) di esperte reali come Maria Rita Gismondo e Ilaria Capua (seguite dalle dichiarazioni di Walter Ricciardi e Silvio Garattini) che ridanno a eventi, protagonisti, terrori surreali i loro nomi e la loro realtà: il COVID-19 esiste; è (non completamente ma) sufficientemente noto; deve e può essere gestito come un problema sanitario. Non è una guerra misteriosa contro un nemico da affrontare come una emergenza.

Da cittadino competente penso di avere il diritto-dovere di esplicitare alcune domande utili per comprendere (e magari rendere culturalmente e politicamente didattico) quanto sta succedendo.

La prima: perché un problema di salute pubblica (tra i tanti, per quanto particolare) è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, con tutto il corredo di competenze, misure, messaggi che ne consegue? La trasformazione -sullo sfondo di uno scenario con suggestioni, antiche e nuovissime, come “la Cina”– di una domanda che, per definizione, richiede una partecipazione informativa reale (coerente e trasparente, su quello che si sa e su ciò che non si sa) nell’annuncio di un nemico da affrontare come un terremoto in atto o un uragano che può colpire mortalmente ovunque e chiunque ha fatto della paura e dell’impotenza le protagoniste.

La seconda. Il termine più vicino a “paura”, ancor più minaccioso, è “sicurezza”: qualcosa che deve essere dato dall’esterno, in modo rigido, contro tutti gli invasori. Quanto più la sicurezza confonde le idee, tanto più le misure che suggerisce sono sostanzialmente senza senso. O talmente di senso generico e comune, da essere ridicole: dal lavarsi tutte/i sempre più spesso le mani, al pulire ogni 15 minuti tutte le maniglie su treni sostanzialmente deserti e ben in ritardo (testimonianza personale su un Roma-Milano divenuto notturno). Senza parlare di che cosa evoca, nell’Italia di Minniti e di Salvini, l’immaginario di in-sicurezza personale e collettiva coltivato per tanto tempo, e ora riversato su un nemico invisibile e potenzialmente mortale.

La terza. Il cittadino che sono cede ora un po’ di spazio per una domanda “competente”. Avendo come alfabeto obbligatorio di riferimento, in medicina, la consapevolezza che un’informazione sul pericolo e sul rischio deve, se vuole produrre i suoi effetti, essere chiara e generatrice di comportamenti razionali, come è stato possibile che non sia stato costituito un gruppo di esperti che fungesse da riferimento per coloro (a cominciare dai media) che potevano/possono avere un ruolo di informazione? Un gruppo di esperti reali, non a priori concordi, ma credibili per indipendenza e chiarezza di posizioni: disponibili alla discussione pubblica, ma con potere/dovere di intervenire sulle informazioni fuorvianti, per eccesso o per difetto o per banale (e più frequente) scorrettezza, più o meno volontaria. È chiaro che la domanda potrebbe essere rivolta alla “comunità scientifica” (se questa esiste): la circostanza che, di fronte a un problema dichiarato di “sicurezza nazionale”, non ci sia stato neppure un tentativo di ritrovare tra i tanti esperti una responsabilità collettiva non è banale. Ognuno parla per sé. Con la sua immagine. Con i suoi titoli. Con l’aura che sa costruirsi intorno. Viva la libertà di parola, certo. Ma a patto che a livello istituzionale non ci sia solo il raccomandare, il controllare, l’essere protagonisti rispetto a una popolazione di “consumatori” delle informazioni più ingiustificate, incomprensibili, fuori da qualsiasi credibilità scientifica: privati del diritto/possibilità di essere “interlocutori” di un’autorità responsabile e dialogante.

L’ultima. Questo cittadino competente è anche abbastanza vecchio, da essere stato attore diretto (e molto tecnico, in laboratorio e in commissioni) ai tempi – ormai preistorici (anno 1976) – di Seveso. Lo scenario era quello di un gravissimo incidente industriale. L’epidemiologia e la sanità erano centrali. Molto più “potenti” di ora. Era un’estate molto calda. La commissione di tecnici era disponibile quotidianamente a valutare e discutere tutti i risultati (affidabili o meno) e le proposte di sicurezza/legalità e di civiltà/democrazia (una domanda non era, allora, così banale: era possibile permettere la gestione pubblica dell’interruzione di gravidanza nelle donne certamente “contaminate”?). E le comunità locali erano i soggetti – con tutte le parzialità – e non le destinatarie/oggetto di misure. Anche allora il problema era la credibilità dell’istituzione, e la sua disponibilità/accessibilità alla trasparenza/condivisione dell’incertezza, ma soprattutto dei suoi perché. È normale, infatti, che un evento che sembra venire da un mondo “altro” ed è minaccioso generi fantasmi. Che hanno bisogno di risposte fondate sulla realtà. Non di altri fantasmi, o di numeri che fingono di coincidere con la realtà (come i numeri di morti “per” virus che fanno ancora in questi giorni da titolo di prima pagina ad alcuni giornali). Chi ci dice quanti sono i denominatori dei “positivi”, e da dove vengono, e perché e quanti sono i falsi positivi e negativi? Non per il gusto di altri numeri: semplicemente per avere, dopo l’emergenza, un tempo in cui la sanità riprenda a fare il suo unico mestiere indiscutibile: quello di essere un indicatore di democrazia e di servizio, e non un garante più o meno illusorio di risposte vendute bene all’opinione pubblica.

Gianni Tognoni è stato direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud. È il Segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

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