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Consultori familiari a rischio

Su tutto il territorio nazionale se ne contano 2.110, ma secondo la legge 34/1996 ce ne dovrebbero essere perlomeno 3.000. A quasi 40 anno dalla loro istituzione, questa intuizione (vincente) degli anni 70 si scontra oggi con i tagli alle risorse e i pregiudizi ideologici —

Tratto da Altreconomia 163 — Settembre 2014

Un cartello sul marciapiede di via Conca del Naviglio 45, a Milano, indica con una freccia l’entrata al consultorio familiare all’interno di una sede Asl. È un venerdì mattina e nella sala d’attesa non c’è nessuno. La cura per l’arredo, dalle sedie colorate a una piccola libreria per bambini, e soprattutto le tante locandine alle pareti che propongono corsi in preparazione alla nascita, assistenza psicologica, visite dall’andrologo e consulenze sulla contraccezione, fa pensare però che sia un posto molto frequentato, anche se, ad oggi, risulta essere uno degli istituti più sacrificati. Su tutto il territorio nazionale se ne contano 2.110 ma secondo la legge 34/1996 ce ne dovrebbero essere perlomeno 3.000. In un anno (tra il 2010 e il 2011) quasi 100 sedi sono state chiuse e di quelle esistenti, non tutte garantiscono personale e strutture adeguate. Il punto però, come spiega Rosetta Papa, direttore dell’Unità Operativa Complessa Tutela Salute Donna dell’Asl Napoli 1, è che “se chiudiamo questo percorso di prevenzione oggi, tra 10-15 anni ci ritroveremo una spesa sanitaria tre volte superiore”.
“Non è possibile, infatti, pensare a un modello sanitario universale, sostenibile, senza occuparsi della prevenzione -spiega Michele Grandolfo, direttore del reparto salute della donna e dell’età evolutiva dell’Istituto superiore di sanità-: ecco perché, a distanza di quasi 40 anni dalla loro istituzione, il ruolo dei consultori risulta ancora e a maggior ragione fondamentale. Non sono residui del passato, ma fondamenti per sistemi sanitari del futuro”.
I consultori familiari nascono nel 1975 e il loro scopo principale è quello di promuovere la salute mettendo al primo posto la prevenzione. Sono rivolti, in particolare, alle donne e agli adolescenti, ma anche agli uomini. L’idea innovativa consiste nel puntare sulle conoscenze delle persone, per renderle più competenti in tema di salute e prevenire, così, malattie o operazioni chirurgiche dannose per il corpo. “I corsi di accompagnamento al parto promossi nei consultori hanno questo scopo -spiega ancora Grandolfo-. La competenza di madre e nascituro nella gestione del travaglio influisce in modo decisivo sul contenimento del dolore associato al parto. Non prendersi cura di questo e proporre, ad esempio, l’epidurale come soluzione per il parto indolore è una forma di medicalizzazione e di spreco”. Il concetto chiave nella promozione della salute è quello dell’“offerta attiva” dove gli operatori sono i primi a proporsi, ad esempio nei corsi di educazione sessuale nelle scuole, senza aspettare che siano le persone a rivolgersi al medico di turno.
Oltre a consulenze in tema di sessualità, contraccezione, psicologia, prevenzione oncologica, in un consultorio vengono fornite visite ginecologiche, farmaci anticoncezionali e, ad esso, è riconosciuto anche un ruolo di riferimento per le donne che volessero intraprendere il percorso di interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Un servizio gratuito e, come afferma Giovanni Fattorini, ginecologo bolognese, autore de I consultori in Italia (2014, L’asino d’oro) “con straordinaria preveggenza per l’epoca, questa scelta si applicò anche agli stranieri”.
Ricercare dati per capire, oggi, lo stato dell’arte dei consultori familiari pubblici in Italia risulta un compito arduo: da parte del ministero della Salute manca un lavoro costante di osservazione e valutazione del servizio; l’ultimo rapporto mirato risale al 2008 e viene comunque definito da chi lo ha redatto “incompleto e approssimativo”. “Se fossero applicate in maniera sistematica le leggi esistenti in tema di consultori e prevenzione -continua Grandolfo-, da quella istitutiva del 1975 al Progetto Obiettivo Maternità Infantile (POMI) del 2000, avremmo enormi risparmi economici a fronte di migliori condizioni di salute. Gli sprechi in sanità ammontano oggi al 30%. In questo caso, parlare di tagli alla sanità in un’ottica di risparmio non ha alcun senso. Il fatto è che la principale fonte di delegittimazione all’idea innovativa di salute proposta dai consultori è arrivata proprio dal pensiero tradizionale medico che fa fatica a rinunciare al suo potere taumaturgico”.

La legge 405 che riguarda l’Istituzione dei consultori familiari fu approvata il 29 luglio 1975. Un periodo di grandi cambiamenti per quel che riguardava il concetto di salute, soprattutto per la donna. Fattorini, nel suo libro ripercorre le principali date: “Nel 1971 la Corte costituzionale decretava l’illegittimità dell’articolo 553 del codice penale che prevedeva pene severe per ‘chiunque pubblicamente incitasse a pratiche contro la procreazione’. Nel 1975 si ebbe la riforma del diritto di famiglia, che portò al sostanziale riconoscimento dei principi costituzionali di uguaglianza tra i coniugi e di maggiore tutela della filiazione naturale. Nel 1978 venne approvata la legge 194 sulla tutela della gravidanza e la regolamentazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Nello stesso anno venne promulgata la legge 833 che prevedeva l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, quasi un coronamento di quella stagione -continua Fattorini- e che, rifacendosi direttamente alla Carta costituzionale, affermava che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
In questo contesto, quindi, si inserisce la legge sui consultori familiari, un modello in piena linea con le indicazioni promosse dall’Organizzazione mondiale della sanità.

“I presidi non erano pensati come ambulatoriali -racconta Margherita Pozza, responsabile del servizio famiglia dell’Asl di Lecco– ma più come aiuto globale alla famiglia. Si pensava a un servizio di risposte capace non tanto di affrontare bisogni specifici ma problemi complessi, relazionali, interpersonali, riguardanti la sessualità. Si parlava di ‘decodifica della domanda’, capire e rispondere con gli strumenti più adeguati; questo era il compito del personale, organizzato in un’équipe multidisciplinare”. Un servizio in gergo tecnico definito a “bassa soglia” cioè di facile accesso, “sburocratizzato”.
Nel 2000 il Piano sanitario nazionale adottò il POMI che prevedeva tre progetti strategici, ribadendo il ruolo centrale dei consultori: percorso nascita, adolescenti e prevenzione dei tumori femminili. “Ci si volle concentrare -spiega Grandolfo, promotore del progetto- sulle donne e sugli adolescenti in quanto settori forti, e tutt’altro che deboli, della società. Le prime, per il ruolo fondamentale che ricoprono nella società; sono, infatti, coloro che ad oggi continuano a occuparsi maggiormente di assistenza, di cura, di alimentazione. Investire in prevenzione su di loro vuol dire avere un’alta resa a livello di salute della popolazione. Gli adolescenti, è chiaro, perché saranno i nuovi adulti.
I rapporti degli ultimi anni dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano, ad esempio, come sia fondamentale l’educazione sessuale fin dalle scuole medie inferiori. L’effetto principale nella promozione della salute è il cercare salute. Una popolazione più sana, è anche una popolazione con minori disuguaglianze sociali”.

Negli anni successivi al ‘75 tutte le Regioni si dotarono di una legge applicativa in tema di consultori familiari. Se questo ha permesso di modellare la legge sul singolo territorio, allo stesso tempo ha causato una frammentazione del servizio, complice anche la mancata osservazione e valutazione da parte del ministero della Salute. Oltre al rapporto del 2008, dati più recenti possono essere estrapolati dalla relazione ministeriale sull’applicazione dell’IVG sul territorio nazionale; questa riporta il numero di consultori attivi (che ad oggi è di 2.110) senza aggiungere altre informazioni su personale e strutture.
La legge 34 del 1996 è la prima a fornire indicazioni su come i consultori dovrebbero essere dislocati: uno ogni 20.000 abitanti (1 ogni 10.000 per le cosiddette zone rurali); ad oggi se ne conta, invece, 1 ogni 28.500. La media nazionale non rispecchia certo la situazione locale che se in alcuni casi è migliore, come in Toscana e Valle d’Aosta (rispettivamente 1,4 e 3,4 per 20.000 abitanti), in altri è ben lontana dal raggiungere l’obiettivo, come in Lombardia e Friuli Venezia Giulia (dove se ne conta 1 ogni 50.000 abitanti circa) o in Molise (1 ogni 78.000).
“Il problema -spiega il dottor Fattorini- non è solo il numero di sedi ma è sapere se per una data provincia si ha personale adeguato rispetto alla popolazione. A Bologna, ad esempio, sono anni che non si assume nessuno”.

Il rapporto del 2008 riporta che solo il 21% dei consultori disponeva di sei/sette figure professionali come previsto dalle leggi nazionali; l’andrologo risultava presente particolarmente in Valle d’Aosta e nel Lazio, mentre nelle altre regioni poco o del tutto assente. Per quanto riguarda il numero dei locali, in solo sette regioni la maggioranza dei consultori familiari disponeva di cinque o più stanze e solo la metà aveva a disposizione una sala per gli incontri collettivi.
“Gran parte della delegittimazione dei consultori familiari è arrivata proprio dai servizi tradizionali: questi, a parte lodevoli eccezioni -spiega Grandolfo- hanno sistematicamente tentato di emarginare i consultori familiari, sia negando l’integrazione strutturale e funzionale, sia operando per impedire assegnazioni di risorse umane ed economiche, strutturali e infrastrutturali, soprattutto al Sud.
Il POMI è stato applicato in minima parte; in sostanza è il vecchio che non vuol far spazio al nuovo: le università che continuano a proporre una formazione di tipo paternalistica; i politici che non si prendono davvero cura del tema attraverso una valutazione del servizio che dovrebbe invece essere parte integrante dell’attività lavorativa e non opzionale, gli operatori stessi che fanno fatica ad adattarsi a un modello di salute che promuove le competenze e le conoscenze di ogni individuo.
Il tutto supportato da chi dalla speculazione sulla salute ci guadagna”. “Il riconoscimento ai consultori -spiega la dottoressa Papa- è arrivato da chi li ha voluti e frequentati; quello dal mondo della sanità si fa fatica ad avere perché non ci viene riconosciuto il ruolo di prevenzione”.

Oltre al freno del pensiero medico tradizionale, anche un’altra parte di società ha provato a intralciare lo sviluppo dei consultori: quella dei cosiddetti “anti-abortisti”. Con l’applicazione della legge 194 e il riconoscimento di un ruolo chiave dei consultori familiari nell’assistenza alla donna durante il percorso di interruzione di gravidanza, questo istituto è stato considerato da alcuni come un fortino di “abortisti” da conquistare tramite l’inserimento di volontari portatori di una cultura “morale”. La forte opposizione degli operatori all’interno dei consultori, frenò l’entrata dei volontari ma, come spiega il dottor Fattorini “una tale presa di posizione ferma e lucida è spesso mancata ad amministrazioni politiche e sanitarie che hanno sacrificato la laicità come merce di scambio politico”.
Anche parlando di aborto, poi, non è possibile prescindere da un discorso sulla prevenzione; già nel 2006 l’Istituto superiore di sanità evidenziava in un suo rapporto come, nella maggioranza dei casi, si ricorra all’aborto in seguito al fallimento dei metodi impiegati per evitare la gravidanza, causato da scarse conoscenze sulla fisiologia della riproduzione e sull’impiego corretto degli anticoncezionali. A tal proposito, l’ultimo rapporto ministeriale, del 2013, in tema di IVG ribadisce “la promozione delle competenze e delle consapevolezze delle donne e delle coppie come obiettivo più importante da raggiungere per l’ulteriore contenimento del fenomeno”; ruolo in cui da sempre sono impegnati i consultori.
Uno degli ultimi esempi di tentativo di modifica della cultura laica propria dei consultori, è stato quello della proposta di legge del 2010 di una consigliera regionale della Lista Polverini: “L’operazione che, per fortuna, è saltata -racconta Fattorini- era quella di trasformare i consultori familiari pubblici in queste agenzie di tutela della famiglia tradizionale a partire dalla composizione del personale che prevedeva figure che non c’entravano niente, come associazioni familiari “capaci di generare una competenza professionale unitamente a una cultura familiare”, così specificava la legge. In sostanza, poi, veniva tolta la potestà al consultorio di rilasciare il certificato di IVG e gli veniva attribuito il compito esplicito di dissuadere la donna dalla scelta dell’aborto. Tra l’altro la proposta di legge conteneva un elemento inquietante sull’obbligatorietà, dicendo che la donna che intendesse interrompere la gravidanza doveva comunque recarsi in consultorio. Se poi la donna avesse deciso di proseguire avrebbe dovuto continuare sola, recandosi in ospedale o dal medico curante, senza alcun supporto.
In questo modo si perde tutta l’operazione di intervento preventivo, atto a fare in modo che la donna torni in un servizio pubblico. Dove si senta accolta e sostenuta, e dove si possa mettere in campo una strategia contraccettiva, per evitare la ripetitività dell’aborto. Così sarebbe stato ulteriormente privatizzato tutto e sarebbe tornato ad essere un problema esclusivo della donna”.

Sempre nel 2010, in Lombardia l’ex presidente della Regione, Roberto Formigoni, dopo aver negli anni della sua politica esternalizzato servizi del pubblico, finanziando il privato sociale (solo qua si trovano 56 consultori privati sul totale di 131 presenti in Italia), ha promosso nelle strutture pubbliche il progetto “Nasko” che propone un sostegno economico alle donne in gravidanza in difficoltà economica. Il punto è che a riceverlo non sono tutte le future mamme in disagio economico ma solo coloro che precedentemente avevano fatto richiesta di interruzione di gravidanza e che, con il certificato di IVG alla mano, vi rinuncino. Tra i requisiti per ricevere il voucher c’è la sottoscrizione a un “progetto personalizzato” da eseguire in un consultorio familiare o presso un Centro aiuto alla vita (CAV).  “Al di là delle difficoltà le persone che si rivolgono al consultorio e si ritengono soddisfatte del servizio sono in aumento” spiega Michele Grandolfo e come afferma Giovanni Fattorini: “I numeri si ostinano a porre dei dubbi ed è su questi che si dovrebbe ragionare, non sui pregiudizi. Serve più attenzione dal ministero, più sensibilità politica e anche etica, considerando queste problematiche non solo un fatto sanitario ma sociale. Queste agenzie andrebbero curate sia dal punto di vista delle risorse sia del valore che il servizio pubblico dovrebbe trasmettere ai cittadini”.
“Da un punto di vista sanitario sono insostituibili -conclude Rosetta Papa dell’Asl di Napoli- bisogna insistere su questo e applicare le leggi che già esistono”. —

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