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Ambiente

Connessioni a rischio

Per navigare col telefonino, veloci e ovunque, servono antenne. Ma manca una pianificazione, i Comuni rincorrono i canoni e non ci sono limiti alle emissioni

Tratto da Altreconomia 129 — Luglio/Agosto 2011
Le antenne per la telefonia mobile sono troppe.
Negli ultimi dieci anni il numero di Stazioni Radio Base (cioè quei “tralicci” su cui stanno le antenne) è cresciuto a causa dell’introduzione dei cellulari di terza generazione (Umts), della liberalizzazione del mercato telefonico, e della volontà degli operatori di incrementare la copertura del territorio. Intanto, il mercato delle sim è saturo, e contemporaneamente l’Autorità per le comunicazioni impone di tagliare le tariffe.

Così, per ridurre i propri costi, gli operatori si mettono d’accordo e nasce lo sharing (o co-siting): su un impianto dove già erano presenti le antenne necessarie a un operatore telefonico, ne vengono installate altre, di un nuovo operatore, e il costo del canone viene ammortizzato (“utilizzando il co-siting il risparmio è del 50% di affitto per ogni sito”, come ci informano dall’ufficio stampa di H3g). Un bel risparmio, dato che il canone medio di ogni antenna è di 15mila euro. 

Gli operatori rispondono così al calo delle tariffe dei servizi di telefonia (sono diminuite tra il 2000 e il 2010 dell’11,7%, secondo l’Istat; e dal 1° luglio scatterà un’ulteriore riduzione: 5,3 centesimi di euro al minuto per Telecom Italia, Vodafone e Wind, e 6,3 centesimi per H3G, che è l’ultimo operatore ad essere entrato sul mercato).Questa tendenza sembra destinata a proseguire, come conferma la delibera dell’Autorità per le comunicazioni del 5 maggio scorso, in cui si propone di ridurre le tariffe dei tre operatori principali a 4,1 centesimi al minuto dal 1° gennaio 2012, 2,6 centesimi nel 2013, 1,6 centesimi nel 2014 e 0,98 centesimi nel 2015 (mentre H3G dovrà seguire tali limiti solo a partire dal 2014).

A fronte di una diminuzione di entrate costante per gli operatori di telefonia (il Rapporto annuale dell’Agcom, reso pubblico il 14 giugno scorso, sancisce un -3,3% di ricavi dal 2009 al 2010 per ogni sim, mentre la spesa finale, considerando tutti gli operatori di telefonia mobile, è passata da 17,86 a 17,51 miliardi di euro), oggi che gli italiani hanno più di due numeri di telefono cellulare a testa (94 milioni di sim attive su un totale di circa 46 milioni di utenti potenziali, se consideriamo la fascia di età compresa tra i 15 e i 75 anni), e il mercato è saturo (l’andamento delle nuove sim attivate da Vodafone, ad esempio, è passato da un +16,9% riscontrato nel 2007 ad un + 0,7% secondo il bilancio di quest’anno), gli operatori si mettono d’accordo per lo sharing.
Senza fare i conti con i possibili problemi per la nostra salute.

Perché “tale situazione, pur limitando il numero di siti necessari sul territorio, genera un’evoluzione peggiorativa dell’esposizione della popolazione nei pressi dei siti di co-localizzazione”, come si legge su uno studio reso pubblico nel marzo 2009 dal Politecnico di Torino (e scaricabile dal sito di Arpa). E peccato anche che la co-localizzazione “potrebbe portare al superamento dei limiti di qualità imposti dalla legge” (“Analisi del rischio da campi elettromagnetici” durante il convegno “Valutazione e gestione del rischio” presso l’Università di Pisa nell’ottobre 2000). Perché condividere gli impianti significa moltiplicare le antenne e moltiplicare le antenne vuol dire aumentare il livello di emissioni (i campi si sommano quadraticamente, cioè aumentano progressivamente pur non raddoppiando).
È chiaro quindi che pur non aumentando i tralicci, aumentano le antenne, e di conseguenza le emissioni pericolose. E se le emissioni aumentano, c’è il rischio di superare i limiti consentiti. Per questo gli operatori di telefonia ne chiedono l’innalzamento legale: “È auspicabile avviare una revisione dei limiti delle emissioni di elettrosmog imposte all’Italia” ha detto lo scorso ottobre l’amministratore delegato di Telecom Franco Bernabè, secondo quanto riferito dal Corriere delle Comunicazioni, che in dicembre ha riportato un’altra dichiarazione di Bernabè secondo cui in Italia “il limite è di 6 volt al metro contro i 60 volt al metro dell’Europa”.

In realtà, il valore di 6 v/m è riferito a “edifici fruiti per non meno di quattro ore”, mentre per i restanti il limite è fissato a 20 v/m. È vero però che l’Italia è uno dei Paesi europei con il più basso limite di emissione, ma ci sono Paesi -Belgio, Liechtenstein e Danimarca- che hanno livelli inferiori ai nostri (tra 0,6 e 3 v/m). Stiamo parlando, certo, del principio di precauzione: non si sa quanto queste emissioni potranno far male nel lungo periodo, ma il fatto che le radiofrequenze dei telefoni cellulari aumentino il rischio di tumore è ormai assodato e confermato da numerosi studi scientifici (con un comunicato del 31 maggio scorso l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha inserito le emissioni elettromagnetiche dei cellulari nella categoria 2b: “Possibili cancerogene per l’uomo”).

“Il vero problema -ci dice Alfio Turco, titolare di Polab, una ditta che fa consulenze in campo di elettromagnetismo ambientale e che ha un’esperienza decennale in 13 diverse regioni italiane- non è solo quello legato all’utilizzo dei cellulari, anche se è proprio grazie alla telefonia mobile che il problema è venuto alla ribalta. Il problema è che se la mattina sto molto tempo al cellulare senza usare precauzioni (auricolare a fili o vivavoce), torno a casa (situata magari vicino a un’antenna) e mi connetto col wi-fi tenendo il portatile sulle ginocchia, mi scaldo qualcosa nel microonde e poi mi asciugo i capelli con il phon, ecco che probabilmente ho assorbito una quantità rilevante di radiazioni elettromagnetiche”.

Eppure le richieste di Bernabè, come degli altri operatori, riporta ancora il Corriere delle Comunicazioni, sono quelle di “raddoppiare il limite di emissioni elettromagnetiche da 6 v/m a 12 v/m per consentire la realizzazione in co-siting della rete Lte” (quella cioè delle reti di quarta generazione, che dovrebbero portare ad una velocità di 140 megabit al secondo). È d’accordo il ministro per lo Sviluppo economico Paolo Romani, secondo cui i limiti italiani sono frutto di “una delle tante norme ideologiche di propaganda ambientalista” (Asca, 27 ottobre 2010) e “fare la banda larga mobile con queste norme insensate obbligherà i gestori a raddoppiare il numero di ripetitori” (come ha spiegato il 17 maggio durante un convegno organizzato da Vodafone presso la Biblioteca del Senato). Si infuriano i membri della Rete Elettrosmog-free Italia, che giudicano “imprudente” e “provocatorio” l’intervento di Romani.

Del resto non è facile rispondere a un Bernabè che lo scorso aprile, durante un’audizione alla Commissione lavori pubblici del Senato sulla banda larga, ha spiegato che Telecom investirà 8,7 miliardi di euro nel triennio 2011-2013, chiedendo di “ampliare la copertura broadband, sviluppare l’ultra-broadband”. Intanto, lo scorso 18 maggio, l’Agcom ha approvato le regole per la più grande asta delle frequenze mai realizzata in Italia: 300 Mhz (mentre per l’Umts erano appena 150) con l’obiettivo di incassare 2,4 miliardi di euro. Ed è ancora Bernabè protagonista, con una lettera a Berlusconi e Tremonti in cui si lamenta un’asta troppo cara e le incertezze legate alla liberazione dello spettro radioelettrico da parte delle emittenti televisive locali. Insomma, è tutta una questione di soldi.

LE ANALISI, UN OPTIONAL
Per l’autorizzazione basta una dia, e il monitoraggio non è un obbligo

 
Come si legge nella Sentenza 4135 del Consiglio di Stato, del 28 giugno 2010, tralicci e antenne di grandi dimensioni sono “valutabili come strutture edilizie soggette a permesso di costruire (ora ad assenso autorizzativo, assorbente rispetto a tale permesso)”. Detto in parole povere: per installare un’antenna si deve presentare una Dia in Comune e, una volta acquisiti i pareri favorevoli di Arpa e Asl (o anche Soprintendenza o altri enti, se l’area è sottoposta a vincoli), se entro 30 giorni non arriva una risposta negativa, vale la regola del silenzio-assenso. Gli operatori di telefonia individuano autonomamente le possibili localizzazioni degli impianti, in aree pubbliche o private, oppure chiedono alle amministrazioni comunali la disponibilità di aree in cui posizionare le stazioni radio. 

La stragrande maggioranza dei Comuni (oltre il 90%) non si dota però di un piano per le antenne, anche perché non esiste una procedura di pianificazione ufficiale. Di solito non viene compiuto uno studio per capire quale possa essere la migliore localizzazione degli impianti, sia in termini di copertura della rete che di impatto ambientale e soprattutto di minimizzazione degli effetti nocivi sulla popolazione. Se prima era obbligatoria la Valutazione d’impatto ambientale, con la sentenza 8377 del dicembre 2010 il Consiglio di Stato ha stabilito che tale valutazione non è più obbligatoria (sentenza confermata dal Tar della Puglia lo scorso marzo). Gioco facile allora per molti Comuni, che concedono le autorizzazioni a fronte del pagamento di un canone annuo. Quello di Loreggia (Pd) fa pagare 8.500 euro; a Latina, invece, il canone si aggira sui 13.000 euro. Mentre le antenne nel Comune di Treviso valgono ben 28mila euro l’anno.
È difficilissimo stabilire un valore medio, che dipende da molti fattori, ma la stima fatta nel 2007 dall’allora ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri era di 15.000 euro. Se consideriamo le circa 70/80.000 antenne presenti oggi in Italia, questo significa che il totale è una cifra compresa tra 1 e 1,2 miliardi di euro. Quanto alle emissioni, nessuna legge italiana obbliga al monitoraggio dell’inquinamento elettromagnetico: “le Arpa sono tenute ad effettuare i controlli solo se sollecitate dalle amministrazioni comunali” spiega Marcello Desiderio del Centro di scienze ambientali-Consorzio Mario Negri Sud. Fino ad oggi le varie Agenzie di protezione ambientale effettuavano uno o più controlli l’anno con le poche centraline a loro disposizione, ma dal prossimo anno non si sa bene cosa succederà. 

La sentenza 272 del 22 luglio 2010 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima una legge della Regione Toscana che imponeva agli operatori telefonici di pagare l’Arpat per il monitoraggio, creando un precedente e lasciando i cittadini nella più assoluta incertezza. 

Per l consiglio d’europa è meglio fare a meno del wi-fi

In tutta Europa fin dal 1992 è compito dell’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection) stabilire i limiti di emissione oltre cui si hanno danni per la salute umana. Le raccomandazioni dell’Icnirp si sono modificate nel corso degli anni anche e soprattutto tenendo conto delle reti per la telefonia mobile e del wi-fi, che hanno affiancato il settore elettrico e quello radio-televisivo.

Le indicazioni di questo ente sono state accettate sia dall’Oms che dal Consiglio dell’Unione Europea, e contenute nelle Raccomandazioni a cui si rifanno le legislazioni nazionali. E se Gran Bretagna, Francia e Svezia hanno scelto di rispettare tali limiti (tra i 42 e i 61 v/m a seconda della fascia di Mhz), c’è chi, come la Germania, raggiunge addirittura i 97 v/m a fronte di un Paese come il nostro in cui il limite varia tra i 6 e i 20 v/m a seconda dell’area in cui si trova il recettore sensibile. 

È del 27 maggio la Risoluzione 1815 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa in cui si chiede di “riconsiderare le basi scientifiche per gli attuali standard di esposizione ai campi elettromagnetici” e di “fissare soglie preventive per l’esposizione a lungo termine alle microonde in tutte le zone al chiuso, in accordo con il principio di precauzione, in modo da non superare gli 0,6 v/m e ridurre a 0,2 v/m in caso di esposizione a medio termine”. Mentre la maggior parte dei Paesi europei decidono, ad esempio, di eliminare il wi-fi da scuole, biblioteche e luoghi pubblici, l’Italia sembra fare orecchie da mercante e non si contano le proposte ministeriali che anzi ne favoriscono lo sviluppo. Come il recente annuncio del ministro Brunetta che prometteil wi-fi in 5mila scuole entro dicembre e addirittura la copertura di tutti gli istituti scolastici italiani entro la fine del 2012.

65MILA ANTENNE
“Lo sharing -ci dice Laura Masiero, presidente dell’Associazione per la prevenzione e la lotta all’elettrosmog- prevede anche 4 o 5 antenne di diversi operatori in co-siting sullo stesso impianto. Il problema è che tali impianti non sono stati studiati fin dall’inizio per contenere un tale numero di antenne, e gli operatori scelgono quei siti solo perché conviene, portando però alla concentrazione delle emissioni in un unico punto”. Il co-siting non è un’idea esclusivamente italiana, ma si va sviluppando da alcuni anni in tutta Europa. Delle 69.603 Stazioni Radio presenti in Germania (dati del marzo scorso della Bundesnetzagentur, l’Agenzia delle Reti Nazionali tedesca) il 37% presenta un unico operatore di telefonia, il 31% ne ha due, il 13% tre, l’8% quattro, il 5% cinque e il restante 6% ha addirittura sei o più operatori sullo stesso impianto. In Italia, nel 2009, si contavano circa 65.000 antenne (vedi mappa nella pagina a fianco), anche se il dato è parziale e largamente approssimato per difetto perché esclude il Trentino Alto Adige e la Basilicata e perché per Lazio, Abruzzo, Campania e Puglia il dato si riferisce al 2008 e per la Sardegna addirittura al 2005.

Si sa inoltre che le stazioni radio sono circa 36.000, ma non è possibile sapere quante di queste siano in co-siting e quante invece quelle utilizzate da un solo operatore, come ci informa l’ufficio stampa dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), quello che coordina tutte la Agenzie ambientali regionali e provinciali (Arpa e Appa) “così da diventare punto di riferimento, tanto istituzionale quanto tecnico-scientifico, per l’intero Paese”. Se non lo sanno loro, insomma, non lo sa nessuno. 

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