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Diritti / Attualità

Il labile confine che separa i carnefici dai giusti

Philippe Pétain, capo del governo collaborazionista di Vichy, stringe la mano ad Adolf Hitler

Un saggio sulla Francia occupata dai nazisti rimanda alla tragedia dei migranti in mare e alla nostra indifferenza. Come reagire?

Tratto da Altreconomia 202 — Marzo 2018

Un giorno i nostri figli e nipoti si chiederanno (e ci chiederanno) che cosa abbiamo fatto per impedire il genocidio dei migranti in corso durante questi anni. È un pensiero ricorrente, espresso in pubblico da alcuni, e che richiama analoghe domande che hanno tormentato le generazioni venute dopo la seconda guerra mondiale. Certo, la Shoah non è paragonabile a quel che avviene nel Mediterraneo, ma questo non rende meno grave la rassegnazione con la quale assistiamo, quasi tutti noi, agli annegamenti in mare, divenuti piano piano un macabro rituale del Tg della sera.

La triste verità è che il potere, anche il più brutale, può spesso contare sulla complicità di massa di cittadini che preferiscono accettare il corso degli aventi o al limite dissentire, disapprovare interiormente, ma senza ribellarsi. Il tema dell’obbedienza e della complicità col tiranno ha segnato la storia del 1900 in Europa e non solo: agli orrori della Seconda guerra mondiale sono seguiti quelli avvenuti in Paesi come Cambogia, Bosnia, Ruanda, dove hanno agito “uomini comuni” simili ai commercianti, gli artigiani, i contabili, i contadini che formavano il famoso Battaglione 101 della polizia tedesca, responsabile del massacro di Jozefow in Polonia, nel luglio del 1942, descritto nel libro di Chistopher Browning “Uomini comuni” (Einaudi 1999).

Il confine che separa i carnefici dai “giusti” è ben più labile di quel che ameremmo pensare e il tema della complicità passiva con la violenza di Stato è sempre attuale. Viene quindi da chiedersi che cosa spinge invece ad agire in dissenso con il potere. Pierre Bayard, letterato e psicanalista francese, ha provato a indagare sul tema (nel libro “Sarei stato carnefice o ribelle?”, Sellerio 2018) calandosi nei panni del padre, classe 1922, quindi passato attraverso la tragedia della Francia occupata dai nazisti. Bayard conclude che se avesse vissuto quegli anni non avrebbe raggiunto i partigiani, preferendo cogliere l’occasione di imboscarsi in biblioteca, ma la sua ricerca esamina anche la condotta di personaggi storici (fra gli altri lo scrittore Gary, il nazionalista Cordier, i fratelli Scholl) e sostiene che ciascuno di noi ha una “personalità potenziale” che resta sacrificata quando siamo chiamati a compiere scelte decisive (nel suo caso, lasciare o no la Francia di Pétain? Entrare o no nella resistenza?)

La maggioranza delle persone, arrivata al bivio, opta per la via più comoda, anche se in conflitto coi propri convincimenti morali, ma ci sono altri che riescono a seguire la rotta della giustizia. In loro possiamo specchiarci, perché non sono inarrivabili eroi, semmai dei “giusti”. Secondo Bayard esistono tratti comuni a queste persone: si diventa ribelli, o se vogliamo resistenti, se c’è dissenso ideologico rispetto al potere, capacità di indignazione (anche su base istintiva, irrazionale), attitudine all’empatia. Ma tutto ciò non basta, perché c’è da fare i conti con la paura e il conformismo. Chi arriva ad agire davvero, è la persona animata da forti ideali (o da una fede religiosa) e che mantiene indipendenza di giudizio, nonché la capacità di immedesimarsi nell’altro. Sono tutte virtù invise a ogni potere e poco legittimate socialmente, specie in tempi come i nostri, segnati da maliziosi allarmismi e da persone di potere che brandiscono a furor di popolo il randello della paura e il manganello della xenofobia. Sono però virtù da coltivare se vogliamo immaginare una società diversa e una risposta anticipata ai quesiti dei nostri figli e nipoti.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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