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Economia / Opinioni

La concorrenza (sleale) che fa fuggire le aziende dall’Italia

Una protesta dei lavoratori di Embraco, l'azienda vuole spostare la produzione dal Piemonte alla Slovacchia

Molti dei Paesi che applicano una tassazione favorevole alle aziende sono anche grandi beneficiari di fondi europei, usati per creare illegittime condizioni di attrazione delle imprese da altre aree europee. L’analisi di Alessandro Volpi

Nonostante la parziale ripresa dell’economia italiana, sono ancora aperti a Roma, presso il ministero del Lavoro e presso quello dello Sviluppo Economico, oltre un migliaio di tavoli istituzionali destinati ad affrontare le principali crisi aziendali in essere nel nostro Paese. Tra queste vertenze figurano quella dell’Ilva, che riguarda oltre 12mila lavoratori, quella Aferpi, quella Perugina, quella Embraco, quella Alitalia solo per citare alcune delle più rilevanti.

Peraltro, il ministero del Lavoro ha già concluso 1.250 accordi di questo tipo, in genere nell’ambito di amministrazioni controllate, che hanno interessato 235mila lavoratori a cui è stato evitato l’immediato licenziamento. È evidente, dunque, che i timidi segnali di scongelamento del sistema produttivo italiano, in parte facilitato dagli stimoli di “Industria 4.0”, non stanno coinvolgendo una porzione significativa dell’economia presente nella penisola; che da un lato subisce gli effetti della globalizzazione -sia in termini di concorrenza sia in relazione a possibili delocalizzazioni della filiera- e dall’altro sconta la fuga dei capitali alla ricerca di sedi fiscali più favorevoli.

Soprattutto quest’ultimo aspetto appare sempre più chiaro. Esiste infatti un numero crescente di aziende che decide di lasciare l’Italia, infliggendo seri danni ai livelli occupazionali e alla ripresa, perché attratte da Paesi in cui si pagano meno tasse. Si tratta di un fenomeno che coinvolge ormai anche varie realtà europee, tra cui Repubblica Ceca, Slovenia, Polonia, Ungheria, Lettonia, Olanda e Irlanda, dove si applicano aliquote destinate a trattenere nelle casse dello Stato al massimo il 2% dei ricavi aziendali. In altre parole, parti significative del Vecchio Continente stanno acquisendo i caratteri tipici dei paradisi fiscali per quanto appartengano, a pieno titolo, all’Unione europea e in molti casi all’Eurozona.

Un simile fenomeno suggerisce tre ordini di considerazioni di natura generale.

1) Molti dei Paesi che hanno abbattuto il carico fiscale sulle imprese e, in particolare, sugli investimenti esteri sono anche grandi  beneficiari di fondi europei. Nel caso dell’Ungheria, ad esempio, dove l’Audi non paga praticamente nulla sugli 8,3 miliardi di ricavi, il reddito nazionale proviene per il 2,5% dai fondi europei e una detassazione analoga risulta riscontrabile per la Bulgaria, che fa pagare ai primi dieci gruppi industriali operanti nel Paese un’aliquota dello 0,2%.

Considerazioni non troppo diverse sono possibili per tutti i Paesi del cosiddetto “Gruppo di Viségrad”, che comprende molti degli Stati dell’Europa dell’Est, caratterizzati da aliquote fiscali decisamente basse e dalla prerogativa di godere dell’afflusso di fondi europei in misura superiore ad altre realtà del Vecchio Continente. Il rischio che scaturisce da questo panorama consiste nell’utilizzo “improprio” dei medesimi fondi europei per esercitare la già ricordata, insidiosa, concorrenza fiscale nei confronti di altri membri dell’Unione.
I fondi europei non devono tradursi in aiuti di Stato, in nessuna delle declinazioni possibili di tale termine, né sul versante dei contratti di lavoro né su quello degli investimenti pubblici né su quello della pressione tributaria. Purtroppo gli ultimi anni hanno registrato invece proprio l’impiego, ad opera di alcuni Paesi, di fondi provenienti dall’Unione per creare illegittime condizioni di attrazione delle imprese da limitrofe realtà europee.

 2) Larga parte dei Paesi che beneficiano dei fondi europei e riducono le tasse sono guidati da maggioranze ben poco democratiche e, in molte circostanze, assai tiepide verso l’Europa. Avviene così per la Polonia di Kaczynski, per l’Ungheria di Orban, per la Slovenia di Cerar e per la Bulgaria di Borisov, tutte realtà che stanno abbandonando i tratti dell’economia di mercato per assumere quelli del turbocapitalismo di Stato dove si attraggono i capitali esteri e si cacciano gli stranieri, alzando nuovi muri.

3) Di fronte a questi scenari appare davvero difficile pensare che eventuali flat tax all’italiana possano servire a contrastare la concorrenza fiscale di Paesi che non sono democratici e quasi per nulla europeisti; quando le aliquote si avvicinano allo zero in contesti siffatti è praticamente impossibile risultare competitivi per il nostro Paese, a meno di non immaginare l’abbandono definitivo dello Stato sociale e dei diritti dei lavoratori.    

 Università di Pisa

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