Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Altre Economie

Con gli occhi del gestore

Giulio Sensi, collaboratore di Altreconomia, è diventato presidente di una società “mista” che gestisce l’acquedotto di Lucca: “Servono una legge e regole certe” e “il privato non cerca sempre dividendi”. La nomina dopo l’impegno nel movimento —

Tratto da Altreconomia 154 — Novembre 2013

I lettori di Altreconomia conoscono già Giulio Sensi. Giornalista e scrittore, ha pubblicato in tanti anni di collaborazione con noi articoli per la rivista e libri: sull’informazione e il welfare, innanzitutto. Dopo una vita nel mondo dell’altra economia, a spendersi gratuitamente in campagne a favore dei beni comuni -l’acqua, in primis-, a Giulio -classe 1980- è stato chiesto di assumere un ruolo di responsabilità: diventare presidente della società di gestione dei servizi idrici della sua città, Lucca, la Geal (www.geal-lucca.it)
Una specie di salto “dall’altra parte”, una decisione maturata dopo un lungo confronto con i tanti compagni di “movimento”: un’occasione, forse, per guardare “da dentro”, o perlomeno da un nuovo punto di vista, le questioni legate all’acqua e alla sua gestione.

Giulio, come sei arrivato a coprire questo ruolo, e quali responsabilità comporta?
Ad un anno dalla fine della campagna elettorale, il sindaco di Lucca, del cui comitato elettorale avevo fatto parte, mi ha chiesto di diventare presidente di Geal in virtù dell’esperienza fatta nel comitato per il referendum e soprattutto nel movimento lucchese per l’acqua bene comune. Ho accettato perché credo che persone con percorsi come i miei non debbano rifiutare di misurarsi dentro le istituzioni per cercare di portare avanti con coerenza quei bei principi che coltivano nella società. Qualcuno ha storto il naso.
Che tipo di azienda è Geal?
Un’azienda mista pubblico-privata con la fortuna, a mio parere, di aver conservato nella compagine azionaria, con il 52%, un solo Comune, Lucca, e di operare su un territorio urbano circoscritto. La dimensione facilita un rapporto diretto con i cittadini e spinge l’azienda a dare il meglio.
Chi sono gli altri soci?
La quota minoritaria è della Crea Spa, società di proprietà interamente di Acea, e di Veolia, la multinazionale francese che ha in mano il 19,2% delle quote. Acea esprime l’amministratore delegato, unica figura non locale dell’azienda.
Come si comportano?
Come normali azionisti, mettendo in primo piano l’interesse dell’azienda e rispettando l’indirizzo pubblico. Spesso nei movimenti per l’acqua ci concentriamo sul ruolo “cattivo” dei privati, trascurando un po’ il fatto che il governo dei Cda di queste rimane in mano pubblica, anche quando sono società miste. Quasi tutte, peraltro, almeno in Toscana, con il gruppo Acea, controllata dal Comune di Roma al 51%, dentro la compagine azionaria. È giusto in generale vigilare affinché non ci siano forzature, ma dobbiamo approfondire che cosa significa governo pubblico delle aziende. Nonché gli aspetti regolatori, che impattano in misura determinante sul servizio.
È il tema della regolazione “a monte” del servizio idrico integrato.
Mi riferisco proprio a quello. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ad esempio, ha assunto dopo i referendum un ruolo fondamentale nella regolazione di settore -insieme alle autorità di ambito regionali o locali-, in un processo di uniformazione di regole nazionali: tariffe, regolamenti, piani di investimento e altri aspetti rilevanti vengono decisi lontano dalle aziende stesse, anche se ci sono meccanismi consultori ben costruiti. Manca però un disegno politico forte che il Parlamento dovrebbe riprendere in mano, anche in previsione della scadenza delle concessioni.
Come ha inciso il referendum del 2011 su un’azienda come Geal?
Geal è riuscita a mantenere una dimensione locale. Ce l’ha fatta dopo un contenzioso giurisdizionale durato molti anni su cui il primo quesito del referendum sull’acqua ha svolto un ruolo importante, abrogando il famoso articolo 23bis. Altrimenti, semplificando un po’, avrebbe dovuto seguire iter diversi, fondersi e aprirsi a gare. Il secondo quesito non ha invece impattato sulla Geal dal momento che il metodo tariffario seguito era ancora quello definito dal Cipe, pre riforma del 1994, e non prevedeva una specifica componente per la remunerazione del capitale investito.
Da questa nuova prospettiva, hai rivisto le tue posizioni sui referendum?
Lo stop alla privatizzazione forzata è stato fondamentale, la vittoria della battaglia sulla remunerazione del capitale investito ha dimostrato prima di tutto che i cittadini possono influire. Ma senza un ridisegno delle regole, prima di tutto quelle finanziarie, del settore i referendum rimangono un’occasione persa. Il movimento per l’acqua sta continuando a lavorare su questo tema, ma serve che la politica dia una risposta di ampio respiro ad un settore vitale per la società.
Parliamo di utili: chi decide come impiegarli?
La Geal ha distribuito in quasi 20 anni di esercizio poco di due milioni di euro di utili, incrementando il patrimonio per quasi 7 milioni. Non corrisponde sempre al vero l’idea che i soci privati di minoranza mettano il profitto al di sopra di ogni cosa. La distribuzione degli utili viene decisa dall’assemblea degli azionisti, e nel caso delle società miste a maggioranza pubblica senza il consenso dei Comuni non si decide un bel niente. In tempi come questi, con i Comuni in crisi drammatica di risorse, dobbiamo riflettere su quanto decidere di incassare gli utili a fine anno non sia un grosso favore che il pubblico in difficoltà fa al privato. Ammesso che il privato nella gestione del servizio idrico in Italia esista davvero.
Il ruolo dei privati: che cosa succederà davvero quando scadranno le convenzioni?
Alcune aziende hanno comprato quote al tempo della privatizzazione e incrementano ogni anno il patrimonio grazie agli investimenti. Più passa il tempo e più le aziende che gestiscono il servizio idrico integrato si patrimonializzano, e le loro quote aumentano di valore. Con rischio di impresa pari a zero, visto che tutto è coperto dalla tariffa. Alla scadenza delle concessioni si aprirà una sfida enorme. Il pubblico sarà in grado di riscattare le quote dei privati senza mettere in discussione lo stato di salute delle aziende e del servizio? Ad oggi la risposta è “no”. Se la ripubblicizzazione non vuole essere l’ennesimo regalo dello Stato ai privati dovremmo avviare un percorso politico chiaro, coraggioso e concreto. Ma temo che già difendere lo status quo sarebbe una vittoria.
Qual è il ruolo della politica?
Il cerino dell’acqua pubblica oggi l’ha in mano la politica: i Comuni che possiedono le quote, le Regioni che fanno le leggi e il Parlamento che non le vuole fare. Dobbiamo lavorare su due aspetti: la qualità dei servizi, con un processo di valutazione che è tutt’altro che semplice, e la selezione di gestori che la assicurino; e la tariffa, con il pubblico che deve cercare attraverso gli enti regolatori di estendere e migliorare il servizio senza che i suoi costi lievitino in maniera incontrollata.
Esiste una questione legata ai modelli di governance?
Le regole devono essere certe. Prendiamo ad esempio gli investimenti: devono andare laddove c’è un gap maggiore e una ricaduta più grande, in un’ottica di miglioramento ambientale e sociale, ma anche di efficienza economica e senza favoritismi né clientele. Questo è possibile solo su dimensioni piccole. Come può un Comune che ha una quota di 0,5% di una società far rispettare i propri bisogni? Siamo ancora molto lontani dai buoni modelli.
Quale sistema funziona meglio?
La politica non è in grado di dare risposte nuove: questo fa sì che in Italia, nell’asse Roma-Emilia-Nord-Ovest si continuino a costruire modelli di gestione dei servizi pubblici basati su processi di ingrandimento, acquisizione e concentrazione, sempre più lontani da una visione degna di beni comuni. Non esiste un sistema ideale, ma serve una gestione dei servizi pubblici vicina ai cittadini. Il modello verso cui andare, a mio parere, è una proprietà interamente pubblica delle società, con gestioni industriali serie su piccola scala e norme e prassi certe che mettano le aziende al riparo dalle intromissioni non regolate della politica. Ma se la politica è virtuosa, allora anche le gestioni miste possono avere un senso. Basta che, come spesso accade in Italia, non si privatizzino i guadagni e pubblicizzino le perdite.
Servono nuove norme?
Il fatto che a due anni e mezzo da uno dei referendum più importanti della storia italiana questo tema sia in fondo all’agenda politica e venga sempre trattato allo stesso modo dalle politiche regionali e locali dimostra che c’è ancora tanto da fare. La battaglia è ancora tutta da giocare. Credo che anche nei movimenti serva meno ideologia e più pragmatismo. Ricette pronte non ce ne sono, devono essere costruite insieme dialogando con tutti e senza difendere interessi di parte. —

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.